1. La diversità umana
2. Una domanda antica
3. Una disciplina moderna
4. La cultura
5. Relativismo culturale e etnocentrismo
6. Branche dell’antropologia culturale
7. I metodi
8. Cosa fa l’antropologo culturale oggi
Immagina di partecipare a una festa di matrimonio in un piccolo villaggio dell’India. Gli sposi, adornati con ghirlande di fiori e abiti dai colori sgargianti, celebrano la loro unione in un rituale che coinvolge il fuoco sacro e preghiere recitate in sanscrito. Ora spostati in Scandinavia, dove un altro matrimonio si svolge in una semplice cerimonia civile, seguita da una cena in famiglia e un brindisi in onore della coppia. In Africa occidentale potresti assistere a un matrimonio tradizionale yoruba, con danze collettive, offerte agli antenati e uno scambio di doti tra le famiglie.
Consideriamo l’alimentazione. In Giappone, una ciotola di ramen non è solo un pasto: è un’arte. La scelta degli ingredienti, la disposizione degli elementi nel piatto e persino il modo in cui viene consumato – sorseggiando rumorosamente per esprimere apprezzamento – riflettono valori culturali legati all’estetica e alla convivialità. Al contrario, pensa a un banchetto nuziale nel sud degli Stati Uniti, dove il barbecue – con carni affumicate e salse ricche di sapore – rappresenta non solo un’esperienza culinaria, ma anche un’occasione di comunità e tradizione familiare.
Anche il modo di vestire racconta storie di diversità culturale. In alcune regioni del Medio Oriente, il velo indossato dalle donne è spesso interpretato come un simbolo di modestia e spiritualità, mentre in altre parti del mondo l’abbigliamento esprime la libertà individuale o lo status sociale, come i completi firmati delle élite urbane occidentali.
Persino i gesti quotidiani possono variare radicalmente da una cultura all’altra. Un cenno del capo che significa “sì” in Italia potrebbe essere interpretato come un “no” in Bulgaria. Un abbraccio affettuoso, comune in molte culture latine, potrebbe risultare imbarazzante o fuori luogo in contesti nordici, dove il rispetto dello spazio personale è fondamentale.
Esistono dunque bisogni universali, come mangiare o vestirsi, che vengono tuttavia soddisfatti in modi diversissimi nelle diverse comunità umane. L’antropologia culturale studia queste differenze cercando di capire cosa c’è dietro di esse. Perché alcune culture ritengono sacro il matrimonio mentre altre lo considerano un affare pratico? Come cambia la percezione del valore nelle diverse culture? Cosa c’è dietro le usanze, i rituali, le tradizioni delle diverse culture? In che modo la cultura in cui siamo immerso condiziona la percezione che abbiamo di noi stessi?
L’antropologia culturale si occupa di esplorare queste ed altre domande. È la disciplina che ci invita a vedere il mondo attraverso gli occhi degli altri, a comprendere i significati che le persone attribuiscono alle loro azioni, credenze e tradizioni. Non solo. L’antropologo culturale non considera solo le culture lontane, ma anche nostra stessa cultura. Lo fa con uno sguardo diverso, considerandola con lo stesso distacco che abbiamo verso una cultura diversa, cercando di comprenderne le logiche nascoste.
L’interesse per le culture diverse ha radici profonde nella storia dell’umanità. Fin dall’antichità, filosofi, storici e viaggiatori si sono interrogati sui costumi e le tradizioni di popoli lontani, spesso descrivendoli con meraviglia, curiosità o pregiudizio. Gli antichi greci, ad esempio, si confrontarono con culture diverse durante le loro esplorazioni e le campagne militari. Erodoto, considerato il “padre della storia”, scrisse nel V secolo a.C. le Storie, un’opera in cui descrisse con grande dettaglio usanze di popoli come gli egiziani, i persiani e gli sciti. Pur filtrate attraverso la lente della sua cultura, le osservazioni di Erodoto riflettevano un sincero desiderio di comprendere le differenze, spesso accompagnato da un riconoscimento dell’ingegnosità e della dignità delle altre civiltà.
Le esplorazioni romane, infine, portarono gli autori latini a riflettere sulle differenze tra “barbari” e cittadini dell’Impero. Pur spesso caratterizzati da un’etnocentrismo che esaltava la superiorità romana, scrittori come Tacito nelle sue opere, tra cui la Germania, si soffermarono sugli usi e costumi dei popoli germanici, cogliendo talvolta aspetti positivi che li rendevano modelli di virtù morale.
Anche nell’antica Cina i contatti con popoli stranieri attraverso la Via della Seta stimolarono riflessioni sulla diversità culturale. Cronisti come Sima Qian (145-86 a.C. circa), nella sua opera Shiji (Memorie storiche), riportarono informazioni sui costumi e sulle pratiche di tribù e regni lontani, mostrando una curiosità simile a quella dei loro contemporanei occidentali.
Questi primi tentativi di documentare e comprendere altre culture dimostrano che la curiosità per la diversità umana è un tratto universale, benché variamente interpretato a seconda del contesto storico. Essi gettarono le basi per l’indagine antropologica moderna, mostrando che l’esigenza di spiegare le culture è connaturata all’esperienza umana.
L’antropologia culturale come disciplina accademica prende forma tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, in un periodo storico segnato dalla rivoluzione industriale, dall’espansione coloniale e dall’emergere di nuove scienze sociali. È in questo contesto che studiosi come Edward Burnett Tylor, Lewis Henry Morgan e James Frazer iniziarono a sistematizzare lo studio delle culture umane, analizzandole attraverso lenti evoluzionistiche. Accademicamente esisteva già l’antropologia fisica: una Société d’Anthropologie era stata fondata a Parigi da Paul Broca nel 1859, e un grande impulso venne allo studio dell’essere umano da un punto di vista naturalistico dalla pubblicazione, nello stesso anno, dell’Origine delle specie di Charles Darwin. L’antropologia fisica, o biologica, studia l’essere umano da un punto di vista appunto fisico, considerando la diversità nella struttura delle ossa e del cranio, la conformazione del cervello, la misura delle dimensioni e delle proporzioni del corpo. L’antropologia biologica si occupa anche di ricostruire la nascita della specie homo sapiens, analizzando i fossili di ominidi e elaborando ipotesi riguardo alle tappe evolutive che hanno portato dagli ominidi alla nostra specie. L’antropologia culturale si distingue da quella biologica appunto per l’attenzione alle differenze culturali. Centrale è dunque la definizione di cultura, che tuttavia non è facile.
La definizione classica di cultura è quella fornita da Edward Burnett Tylor nella sua opera del 1871 Primitive Culture:
La cultura o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include conoscenze, credenze, arte, morale, diritto, costume e ogni altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro della società.1
Già in questa prima edizione dunque la cultura appare come un fenomeno complesso, che comprende visioni del mondo (le credenze e le idee religiose, morali eccetera), comportamenti (le usanze e le abitudini) e pratiche (l’arte, ma anche l’artigianato, la cucina, la costruzione di manufatti eccetera). Tylor tuttavia parlava di cultura al singolare. Nella sua prospettiva evoluzionistica la cultura o civiltà è un unico fenomeno, che i diversi gruppi umani raggiungono con gradi diversi; è dunque possibile parlare di società più o meno avanzate dal punto di vista culturale, di società pienamente civilizzate – naturalmente quelle occidentali – e di società che hanno ancora una cultura primitiva.
Uno dei più importanti critici di questa visione è stato Franz Boas (1858–1942), che ha introdotto l’idea del relativismo culturale. Boas ha spiegato che ogni cultura è unica e deve essere compresa nel suo contesto storico e sociale, senza giudicarla secondo standard esterni. Per Boas, una cultura non è semplicemente il risultato di un’evoluzione lineare, ma il prodotto di una combinazione unica di fattori storici, ambientali e sociali. Per esempio, una tradizione religiosa, una pratica alimentare o un sistema linguistico non possono essere considerati “migliori” o “peggiori” rispetto ad altri, ma devono essere analizzati come risposte specifiche a un contesto particolare. Questo approccio ha spostato l’attenzione dall’idea di una “scala universale di progresso” a un’analisi più profonda delle differenze culturali, viste come espressioni valide e significative della condizione umana.
In seguito, antropologi come Bronisław Malinowski (1884– 942) hanno mostrato che la cultura non è un insieme rigido di regole e tradizioni, ma una rete di pratiche quotidiane e relazioni sociali che servono a soddisfare i bisogni delle persone, come il cibo, la protezione e il senso di appartenenza. Malinowski ha anche sviluppato un metodo chiamato osservazione partecipante, che consiste nel vivere a stretto contatto con le persone che si studiano, per capire davvero come vedono il mondo.
Nel XX secolo, Clifford Geertz (1926-2006) ha descritto la cultura come un sistema di simboli e significati. Per Geertz non basta osservare ciò che le persone fanno: è fondamentale capire perché lo fanno e quali significati attribuiscono alle loro azioni. Per esempio, un matrimonio non è solo una cerimonia, ma un evento pieno di simboli che esprimono l’idea di famiglia, amore, comunità e tradizione.
Infine gli approcci più recenti, come quelli del postmodernismo e degli studi postcoloniali, hanno sottolineato che le culture non sono entità fisse o omogenee. Dentro ogni cultura ci sono diversità, conflitti e cambiamenti continui. Questo ha portato a un modo di studiare le culture più attento alle loro contraddizioni e alle influenze esterne, come la globalizzazione. In questo modo l’antropologia è diventata un campo sempre più aperto e capace di esplorare la complessità del mondo umano.
Soffermiamoci ancora sul concetto di relativismo culturale. Si tratta di una posizione non facile da raggiungere: la nostra posizione di base, per così dire, è l’etnocentrismo, ossia la tendenza a giudicare le altre culture utilizzando i valori e le norme della nostra come metro di paragone, spesso considerandole inferiori o sbagliate. Per esempio una persona abituata a mangiare con coltello e forchetta potrebbe considerare “strano” o “primitivo” l’uso delle mani per mangiare, come accade in molte culture del sud-est asiatico o dell’Africa. Questo atteggiamento non solo impedisce di comprendere le altre culture, ma può anche alimentare pregiudizi e discriminazioni. Il relativismo culturale al contrario è un approccio che invita a comprendere e rispettare le pratiche e i valori di ogni cultura nei propri termini, senza giudicarli attraverso il filtro della propria prospettiva. Adottando un punto di vista relativista chi osserva l’uso delle mani per mangiare potrebbe invece scoprire che questa pratica ha una forte valenza simbolica in alcune società, associata a tradizioni di condivisione e intimità familiare.
Un altro esempio riguarda i rituali funebri: in molte culture occidentali, seppellire i defunti è la norma, mentre in altre, come nel Tibet tradizionale, si pratica la “sepoltura celeste”, dove il corpo viene offerto agli avvoltoi come atto di compassione verso gli animali. Un atteggiamento etnocentrico potrebbe considerare questa pratica “macabra” o “arretrata”, mentre il relativismo culturale spinge a comprenderne il significato profondo, legato alla spiritualità e all’armonia con la natura.
L’atteggiamento del relativismo culturale dunque cerca di sospendere il giudizio sulle culture diverse dalla propria. Ma se questo è possibile quando si tratta di usanze alimentari o rituali funebri, le cose si fanno più difficili quando si tratta di pratiche che offendono profondamente la nostra sensibilità o vanno addirittura contro la nostra visione dei diritti umani. È difficile accettare, in nome del relativismo culturale, le mutilazioni genitali femminili praticate in alcune aree dell’Africa, la pena di morte per l’adulterio o l’omosessualità, il matrimonio infantile o la segregazione di certi gruppi sociali.
L’antropologia culturale si articola in diverse branche, ciascuna delle quali esplora aspetti specifici della vita umana per comprendere come gli esseri umani creano e trasmettono significati, valori e pratiche all’interno delle loro società. Tra le principali troviamo:
Il metodo principale dell’antropologia culturale è la già citata etnografia, un approccio che combina diverse tecniche di ricerca per comprendere dall’interno le pratiche, le credenze e i significati delle culture studiate. L’antropologo, attraverso l’osservazione partecipante, vive per lunghi periodi a stretto contatto con la comunità, partecipando alle attività quotidiane e costruendo relazioni di fiducia per osservare direttamente i comportamenti e comprendere le narrazioni delle persone. Questo metodo, reso celebre da Bronisław Malinowski durante i suoi studi sui Trobriandesi, permette di andare oltre la semplice descrizione per interpretare il significato culturale delle azioni e delle tradizioni e cercando di comprendere i fenomeni all’interno del loro specifico contesto culturale, .
Accanto all’osservazione partecipante gli antropologi si avvalgono di strumenti complementari. Le interviste (strutturate, semi-strutturate e aperte) consentono di raccogliere informazioni direttamente dai membri della comunità, lasciando spazio alle loro interpretazioni personali. Le storie di vita sono un altro strumento prezioso, poiché permettono di comprendere come i singoli individui vivono e danno significato alle norme e ai cambiamenti culturali. L’analisi di documenti scritti, come cronache, testi religiosi o archivi storici, è spesso utile per collocare le pratiche culturali in una prospettiva storica più ampia.
Un’altra tecnica importante è lo studio dei sistemi simbolici, come i miti, i rituali e l’arte, che offre una finestra sui significati più profondi condivisi all’interno della comunità. L’antropologo può anche utilizzare strumenti visivi, come la fotografia e i filmati etnografici, che non solo documentano eventi e comportamenti, ma aiutano a comunicare e analizzare i fenomeni culturali in modo più immediato e coinvolgente.
Negli ultimi decenni, l’antropologia culturale ha integrato approcci quantitativi, come questionari e sondaggi, per ottenere dati utili a individuare tendenze e generalizzazioni. L’uso di strumenti digitali, come registrazioni audio e video, software per l’analisi qualitativa e piattaforme digitali per la comunicazione, ha arricchito ulteriormente la pratica etnografica. Questo approccio multidimensionale consente di cogliere la complessità della cultura, rivelando non solo le norme condivise, ma anche le contraddizioni, i conflitti e i cambiamenti.
L’antropologo contemporaneo non si limita più allo studio di comunità lontane o “esotiche”, ma esplora i fenomeni culturali in una vasta gamma di contesti, adattandosi alle trasformazioni di un mondo globalizzato. Oggi, l’antropologo può trovarsi a studiare le dinamiche delle migrazioni, l’impatto delle tecnologie digitali, il cambiamento climatico, le questioni di genere, o i movimenti sociali e politici. In contesti urbani, rurali o virtuali, l’antropologo osserva come le persone costruiscono significati, affrontano le sfide globali e negoziano la propria identità.
Il lavoro dell’antropologo si è anche esteso oltre l’ambito accademico. Sempre più spesso, gli antropologi lavorano in organizzazioni internazionali, aziende private, ONG e istituzioni sanitarie. Qui applicano le loro competenze per progettare interventi culturali sensibili, risolvere conflitti interculturali, migliorare le politiche pubbliche o analizzare i mercati e il comportamento dei consumatori. Ad esempio, in ambito sanitario, l’antropologo può studiare come le credenze locali influenzano l’accesso alle cure o la percezione delle campagne di vaccinazione. In ambito aziendale, può contribuire al design di prodotti e servizi che tengano conto delle esigenze culturali dei clienti.
Inoltre, l’antropologo oggi affronta questioni etiche complesse, come la protezione delle comunità studiate, la restituzione delle conoscenze prodotte e il rispetto dei diritti delle persone coinvolte. Infine, grazie all’uso crescente di strumenti digitali, come i social media e le piattaforme online, l’antropologia si è adattata a nuovi campi di ricerca, esplorando fenomeni contemporanei come le identità digitali, le comunità virtuali e le dinamiche dei media globali. In un mondo in rapida evoluzione, l’antropologo continua a svolgere un ruolo fondamentale nel comprendere la diversità umana e nell’aiutare le società a costruire ponti tra differenze culturali.
Edward B. Tylor, Primitive Culture: Researches into the Development of Mythology, Philosophy, Religion, Art, and Custom, vol. I, John Murray, London 1871, p. 1. ↩