Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.
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Ripensiamo ad Arjuna nel campo dei Kuru. È fermo, bloccato non dalla paura, ma dal dubbio. Sta per uccidere, e questo gli sembra terribile. È un soldato, e uccidere è il suo dovere, ma di fronte ha persone a lui care. Cosa è giusto? La prima volta che lessi la Bhagavad-Gita questa scena mi colpì profondamente: e ancora adesso la considero uno dei momenti più alti della letteratura universale. Ma la lettura di quel che venne dopo mi confuse. Da un lato trovavo insegnamenti altissimi, compreso l’insegnamento dell’ahimsa, la nonviolenza verso ogni forma di vita; dall’altro però Krishna convince Arjuna a fare il suo dovere di soldato, poiché, in fondo, sono già tutti morti, già tutti uccisi da Dio stesso.
Non si da con certezza quando è stato scritto il Mahabharata, di cui la Bhagavad-Gita è parte. La tesi più accreditata è che risalga al terzo secolo prima dell’era volgare. Se le cose stanno così, il nostro Arjuna prende consistenza letteraria più o meno negli anni in cui un altro uomo si trova di fronte ad un dilemma simile; ma più doloroso ancora: perché in questo caso non si tratta di un soldato, ma di un re. Ashoka regnava su un territorio che comprendeva gran parte dell’India, l’Afghanistan e parte dell’Iran. Nell’ottavo anno del suo regno Ashoka guidò una campagna militare per conquistare il regno vicino del Kalinga. Fu una guerra terribile. In uno dei suoi editti confessa, inorridito: “Di là furono deportate centocinquantamila persone; centomila furono uccise; molte centinaia di migliaia perirono”. Le cifre quasi sicuramente sono esagerate, ma il suo sconforto, a distanza di millenni, giunge sincero: “La conquista di un paese indipendente è strage, morte, cattività di uomini; e ciò è fonte di pena e deplorazione per il re caro agli dei”.1 Ashoka non celebra la sua vittoria con trionfi, non si vanta delle vittime, non si esalta per il potere ottenuto con la forza. Si pente. E cerca di usare il suo potere per mostrare un’altra via.
Secondo la tradizione questo cambiamento fu dovuto all’incontro con il buddhismo, alla cui diffusione Ashoka diede un contributo notevolissimo. Ma nei suoi editti, che diffuse in tutto il suo regno in più lingue, compresi il greco e l’aramaico, gli aspetti dottrinali sono del tutto assenti. La sua religione è la religione della pietà e della nonviolenza. Una via difficile per i singoli, ancora più difficile per i governanti, dai quali ci si aspettava (e in parte ci si aspetta ancora oggi) durezza, potenza militare, capacità di incutere paura. In un editto, dopo aver affermato che desidera la gloria non per le armi, ma per la dedizione al bene comune, confessa: “Ma ciò è difficile così per gli umili come per i grandi, e richiede uno sforzo straordinario e una totale rinunzia; e ciò per un potente è davvero difficile”.2
La pietà di cui parla Aśoka nei suoi editti include la nonviolenza verso gli animali, la gentilezza reciproca, il rispetto degli anziani e degli asceti e la tolleranza religiosa. In un editto ritrovato nella città di Shahbazgarhi, oggi in Pakistan, si legge: “Si deve sempre rispetto alla religione altrui. Agendo in questo modo si esalta la propria religione e non si fa offesa alle altre; agendo diversamente si fa ingiuria alla propria religione e alle altre. Chi dunque esalta la propria religione e denigra totalmente le altre per devozione alla propria religione e per glorificarla, agendo con tale eccesso fa danno alla propria religione”.3 È interessante notare che il termine adoperato per indicare la religione è pasanda, che si riferisce soprattutto alle posizioni religiose non conformiste, quelle che in occidente chiamiamo eresie.
Il Pakistan è oggi insanguinato dai conflitti tra musulmani ed hindu. E mentre scrivo i giornali danno notizia di un attentato in Sri Lanka, che ha fatto quasi trecento morti. Ashoka appare lontanissimo, e tuttavia è segno di speranza nell’umanità che qualcuno abbia voluto testimoniare nella pietra, migliaia di anni fa, che è possibile una alternativa alla legge della violenza ed alla miseria del fanatismo.