Svaha!

Abbandonarsi

Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.

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Il filosofo francese René Descartes sosteneva che esistono due sostanze: il pensiero, che chiamava res cogitans, e la materia, res extensa. In noi la materia è il corpo, il pensiero è l’anima; e se l’anima viene da Dio, il corpo non è che un meccanismo. Gli animali, che non hanno anima, per Descartes non solo altro che automi, macchine complesse, ammirevoli nella loro perfezione, ma prive di qualsiasi luce spirituale. Il nostro stesso corpo è una macchina, unita allo spirito attraverso la ghiandola pineale.

Ora, immagina di voler fare esperienza, seguendo l’insegnamento di Descartes, del tuo corpo come una macchina. Potresti cominciare dal respiro e osservarlo, seguirlo nella sua dinamica, sentirlo entrare nei polmoni e considerare il movimento intero della respirazione come un processo meccanico. Potresti considerare allo stesso modo le sensazioni. Potresti analizzare il corpo nelle sue parti, esattamente come se smontassi un automa per vedere come è fatto. Potresti, in altri termini, fare meditazione vipassana.

Molti ritengono che la meditazione serva a vivere con più intensità. Ad essere presenti in qualsiasi atto. A bere con consapevolezza il proprio tè. È una interpretazione affascinante, ma temo che non sia proprio ciò che intendeva il Buddha quando ha insegnato la pratica.

Abbiamo incontrato il termine nibbida. Si traduce con “disincanto”, ma il termine pali include anche l’idea del disgusto. Ora, il Buddha sostiene che è questo disgusto-disincanto che dobbiamo provare riguardo al nostro corpo. Ma nella meditazione si va oltre il corpo. Dopo le sensazioni, dopo le parti del corpo si giunge alla mente e agli oggetti mentali. Colui che medita scopre che non solo il corpo, ma anche la mente è un meccanismo. La res cogitans non è spirito, non è di origine divina; è un flusso, un campo di processi che sorgono e svaniscono, un gioco di forze non diverso dalla materia. E non diversamente dalla materia, possiamo considerarlo con distacco e con una punta di disgusto. Il mio corpo è un insieme di processi naturali che sorgono e cessano, la mia mente è un insieme di processi naturali che sorgono e cessano. Questo sono io. Ma sono davvero io? Se qualcuno portasse via dell’erba dal bosco in cui ci troviamo, voi pensereste che porta via qualcosa di vostro?, chiede un giorno il Buddha ai suoi monaci nel boschetto prediletto. No, rispondono loro. Il bosco non è nostro. Bene, replica il Buddha. Pensate allo stesso modo del vostro corpo, delle vostre sensazioni, della vostra mente. “Tutto ciò che non è vostro abbandonatelo”.1 Meditare vuol dire al tempo stesso entrare in contatto e abbandonare. Verificare che il corpo, le sensazioni, la mente sono processi che sorgono e cessano, e che non non siamo quei processi.

Resta una domanda: chi è che abbandona? Chi è che considera il corpo, le sensazioni e la mente come qualcosa che non gli appartiene? Chi è che si libera? È una domanda destinata a restare senza risposta. Se dessimo una risposta, se trovassimo un nome per questo osservatore disgustato, avremmo una nuova cosa da abbandonare.

  1. Alagaddupamasutta, Majjhima Nikaya, 22, in RB1, p. 248.