Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.
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Nei sutra buddhisti ci sono una o più figure in primo piano – il Buddha, i suoi discepoli più vicini, a volte qualche essere divino – e uno sfondo costituito da monaci. Una moltitudine di monaci che seguono il Buddha, ne ascoltano estasiati gli insegnamenti, lo sostengono con la loro approvazione e mettono quotidianamente in pratica (e alla prova) il suo insegnamento. Nel Canone compaiono due testi in cui alcuni di questi monaci escono dall’anonimato e parlano in prima persona: sono i Canti dei monaci (Theragatha) e quelli delle monache (Therigatha). Sono suggestive in particolare le parole e le storie di queste ultime, la cui accettazione nel Sangha aveva suscitato non poche tensioni. Sono storie spesso tragiche di donne che hanno attraversato la sofferenza, la solitudine, la morte del marito o dei figli, l’ostilità delle famiglie, l’abbandono, prima di approdare al Dharma e trovare in esso una liberazione che è sociale, oltre che spirituale.
Nei Canti dei monaci ritroviamo il nostro Ananda. Difficile dire se siano davvero parole sue o di qualcuno che ha interpretato il suo sentire e la sua personalità. È il canto di un uomo solo, dopo la morte del suo maestro. “I vecchi uomini sono morti / i nuovi non mi piacciono. / Oggi questo bambino medita da solo / come un uccello nel suo nido quando fuori piove”.1 Qualche verso prima Ananda si vanta di aver ricevuto (e memorizzato) ottantaduemila insegnamenti dal Buddha e altri duemila dai suoi discepoli. Secondo la tradizione, dice il vero: fu lui il libro vivente, il taccuino degli appunti del Buddha. Ogni volta che il Buddha parlava, c’era lui a memorizzare. Pochi mesi dopo la morte del Buddha si tenne un primo concilio, durante il quale Ananda fu invitato a recitare davanti ai monaci tutti i discorsi del Buddha, e cominciò la trasmissione orale. Comunque stiano le cose, è certo che i discorsi del Buddha sono stati tramandati oralmente per molto tempo, e già in questa fase di trasmissione orale i testi subirono una prima organizzazione. La scrittura arrivò secoli dopo, e lontano dal luogo in cui il Buddha visse e insegnò: fu durante il quarto concilio, tenutosi nello Sri Lanka nel 25 avanti Cristo che, secondo la tradizione, i sutra furono messi per iscritto su foglie di palma e diedero vita a quello che oggi conosciamo come Tipitaka (Tre canestri). I tre canestri sono il Vinaya Pitaka, contenenti le norme di disciplina per i monaci, il Sutta Pitaka, che raccoglie i discorsi del Buddha e l’Abhidhamma Pitaka, che raccoglie trattazioni analitiche sull’insegnamento, riguardanti in particolare la psicologia.2
Per secoli la trasmissione orale degli insegnamenti del Buddha è stata una pratica religiosa, compiuta con il massimo zelo ed un’attenzione estrema, e tuttavia nessuno può credere che i testi si siano tramandati senza aggiunte, omissioni, fraintendimenti, correzioni più o meno intenzionali. Sono distorsioni che accadono anche con la trasmissione scritta, si può immaginare quanto siano frequenti nella trasmissione orale. L’impresa di distinguere cosa ha veramente detto il Buddha e cosa invece è stato aggiunto, frainteso, interpolato è semplicemente impossibile. Il Dharma va preso così: come un fiume che nel corso del suo scorrere secolare ha raccolto rami, foglie, zolle di terra, impurità varie, ma che pure si è impreziosito con affluenti imprevisti, con voci altre che a distanza di secoli e di chilometri sono riuscite meravigliosamente a dialogare con quella prima voce lontana.
Theragatha, 1036. ↩
Il Sutta Pitaka a sua volta è diviso nei seguenti Nikaya (collezioni): Digha Nikaya, collezione dei discorsi lunghi; Majjhima Nikaya, collezione dei discorsi medi; Samyutta Nikaya, collezione dei discorsi raggruppati, l’Anguttara Nikaya, collezione dei discorsi ordinati numericamente e il Khuddaka Nikaya, collezione minore. ↩