Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.
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Come Socrate e Gesù, il Buddha non ha scritto nulla. Ha parlato però tantissimo. I suoi discorsi, che sono stati messi per iscritto molto tempo dopo la sua morte, sono contenuti in decine e decine di sutra. La prima lettura di un sutra buddhista non è una esperienza piacevole: vi si trovano ripetizioni infinite, in qualche caso davvero esasperanti; solo con il tempo scopri dietro quelle ripetizioni sia il rigore del ragionamento che la leggerezza della poesia. È facile capire il perché di quelle ripetizioni. Dal momento che le sue parole dovevano essere ricordate, nei suoi discorsi il Buddha con ogni probabilità usava quello stesso stile ripetitivo. Nei testi troviamo spesso, alla fine del discorso, dei versi che servono come sintesi; non escludo che il Buddha concludesse davvero così i suoi discorsi. L’intero discorso poteva essere memorizzato, nei suoi dettagli, da alcuni che erano incaricati di conservarne memoria, mentre i versi finali potevano essere ricordati da tutti, come essenza dell’insegnamento. È anche per questa ragione che nella dottrina buddhista si trovano molte enumerazioni: le quattro nobili verità, il nobile ottuplice sentiero, i dodici anelli dell’origine interdipendente e così via.
Tutto quello che ha detto il Buddha, o quasi, rientra in qualche enumerazione. Non solo: vi rientra anche quello che il Buddha non ha detto. Perché, per fortuna di quelli che avevano il compito di tramandare le sue parole, il Buddha a volte taceva. Non era un silenzio qualsiasi, naturalmente. Era il nobile silenzio del Buddha1. Come abbiamo visto, l’insegnamento buddhista ha un carattere pratico, si occupa della sofferenza e dei modi di superarla. Il Buddha restava in silenzio ogni volta che qualcuno faceva una domanda che non aveva a che fare con questo: capire la sofferenza e superarla. La tradizione individua quattordici domande cui il Buddha si rifiutava di rispondere. Riguardano quattro temi: il tempo, lo spazio, il sé e la morte. Il mondo è eterno? Non è eterno? È sia eterno che non eterno? Non è né eterno né non eterno? Il mondo è finito? Non è finito? È sia finito che non finito? Non è né finito né non finito? Il sé è identico al corpo? Non è identico al corpo? Il Tathagata (il Buddha) esiste dopo la morte? Non esiste? Esiste e non esiste? Né esiste né non esiste?
Quasi sicuramente questioni del genere, con le loro formulazioni un po’ bizantine, erano correnti all’epoca e facevano parte del dibattito filosofico. Restando in silenzio il Buddha prende le distanze da questo modo di affrontare i problemi. Non per disprezzo della ragione, né per rifiuto del confronto e del dialogo: in molti sutra lo vediamo impegnato a ragionare (e a ragionare in modo raffinatissimo) e a discutere. Non si tratta nemmeno di un tentativo di custodire qualche mistero, di indicare qualcosa di indicibile, e perciò sacro. Più semplicemente, il Buddha ha presente il rischio di una ragione compiaciuta di sé stessa, che elabora teorie alle quali si legano definizioni di sé (eternalisti, nichilisti, materialisti, spiritualisti ecc,): tutte forme di attaccamento che alimentano quella sofferenza da cui bisogna liberarsi. Fa’ attenzione: tra le questioni senza risposta, perché inutili, c’è anche quella riguardante la vita del Buddha dopo la sua morte. Esiste il Buddha, ora? Esiste ancora, in qualche forma? Esiste ancora, da qualche parte, o è diventato nulla? Che importa? Cosa ha a che fare con il qui ed ora della mia sofferenza?
Culamalunkyasutta, Majjhima Nikaya, 63, in RB1, pp. 223 segg.; Anandasutta, Samyutta Nikaya, 4.10.10, RB1, pp. 203-4. ↩