Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.
Indice | Precedente | Successivo |
Il nobile silenzio del Buddha ha un’altra conseguenza positiva. Rifiutandosi di parlare di questioni che esulano dal cammino della liberazione dalla sofferenza, libera per così dire un campo di conoscenza, lasciandolo agli specialisti. Il buddhismo non ha rinunciato ad elaborare una sua visione dell’universo, e tuttavia si tratta di una concezione che resta alla periferia del Dharma: non è essenziale per la liberazione. Il mondo è eterno? È infinito? Quando e come è cominciato? A queste domande altre religioni danno risposte sicure, e si tratta di risposte che fanno parte integrante della dottrina. Risposte che, inevitabilmente, sono entrate in conflitto con quanto la scienza veniva scoprendo. Il risultato è stato lo scontro tra scienziati e poteri religiosi che, poiché la verità di per sé non ha alcuna forza per imporsi sull’errore, se quest’ultimo ha dalla sua la maggioranza, è stato tutto a svantaggio degli scienziati. In una società secolarizzata la situazione si è rovesciata: sono ora i monoteismi in difficoltà, poiché antiche convinzioni si sono dimostrate inconsistenti alla luce della conoscenza scientifica. Ciò costringe ad una difficile reinterpretazione della tradizione e dei testi sacri, che cerchi, ad esempio, di conciliare la dottrina creazionista con la teoria di Darwin. Ma non manca chi continua a guardare con sospetto la scienza.
Che l’universo sia nato con il Big Bang, o sia stato creato, o provenga da un altro universo, che sia finito o infinito, o né finito né infinito, che proceda verso un ordine finale o si sviluppi senza alcuna ragione apparente: sono tutte questioni indifferenti per il buddhismo. Non mancano, in realtà, conoscenze scientifiche che potrebbero mettere in crisi il Dharma. Se si potesse dimostrare scientificamente – in questo caso basterebbe una scienza come la statistica – che l’essere umano non soffre, che la sofferenza è stata debellata grazie al capitalismo, che ha instaurato la società del benessere, il Dharma diventerebbe inutile. Se si potesse dimostrare che i fenomeni non sono, come insegnava il Buddha, impermanenti, interdipendenti e privi di identità propria, andrebbero giù anche gli altri capisaldi della interpretazione buddhista del mondo. Ma allo sguardo dello scienziato il mondo appare esattamente come ce lo mostra il buddhismo, con gli strumenti analitici e concettuali del tempo in cui è nato e si è sviluppato: una fitta rete di fenomeni interdipendenti, nella quale la solidità delle cose e dei corpi si scioglie nella complessità dei processi fisici e chimici.
Tra gli attributi del Dharma c’è quello di essere ehipassiko, ossia tale da poter essere verificato da ognuno. Negli ultimi giorni della sua vita, in un momento di miglioramento della sua malattia – ma è ancora stanco e sofferente: il suo corpo, dice, è tenuto insieme dalle bende come un carro dalle cinghie – il discepolo prediletto Ananda gli chiede di dare ultime istruzioni alla comunità dei monaci prima di estinguersi nel nirvana definitivo. Il Buddha è sorpreso. Ha dedicato ai suoi monaci tutta la vita. Cos’altro gli chiedono ancora? Tutto quello che aveva da insegnare lo ha insegnato. Io, dice, non ho creato una dottrina esoterica ed una dottrina essoterica, una dottrina per pochi e una per molti. I miei non sono gli insegnamenti di un acariyamutthi, un “maestro dal pugno chiuso”, dice1. Un insegnamento chiaro, aperto, verificabile, senza nulla di esoterico, misterioso, fideistico, era quello che il Buddha intendeva dare ai suoi discepoli e al mondo. Non sempre gli sviluppi del buddhismo lontano dalla sua terra di origine rispetteranno questi tratti iniziali.
Mahaparinibbanasuttanta, Digha Nikaya, 16, Seconda sezione, 32, in RB1, p. 1140. ↩