Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.
Indice | Precedente | Successivo |
Qualche pagina fa ho parlato di felicità. Ho detto che il paradiso è la condizione in cui siamo capaci di felicità. Rileggendomi provo qualche imbarazzo. È l’imbarazzo che sempre mi suscita l’uso della parola felicità, come l’uso di altre parole – ad esempio, libertà – cui pure non riesco a rinunciare, e che anzi considero importanti.
Molte persone ritengono che la felicità sia il vero scopo della vita. Un tempo questa felicità veniva pensata come un obiettivo sociale: si desiderava, si lottava per una società in cui nessuno sarebbe stato infelice e ad ognuno sarebbe stata aperta la porta della felicità. I testi che ne parlano, scritti per lo più nell’Ottocento, hanno un fascino particolare. Si avverte lo slancio di una umanità che sta dominando sempre più la natura con la forza della ragione e della scienza e sente di poter fare lo stesso con la società. È il periodo in cui nasce la sociologia. Il fondatore, August Comte, assicura che grazie alla nuova scienza della società sarà possibile realizzare un sistema sociale perfetto. Altri, come gli anarchici, pensano che questo non sarà possibile senza una lotta che metta fine allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e liberi la classe proletaria dall’oppressione della borghesia. La società è in fermento ma tutti sono ottimisti riguardo al futuro.
Nel Novecento gradualmente l’utopia si converte in distopia. Quando pensano al futuro, gli scrittori non immaginano società perfette come l’Icaria di Étienne Cabet o Nowhere di William Morris, ma incubi totalitari, peraltro già ampiamente realizzati dai diversi regimi del secolo. Sul finire del Novecento il capitalismo si è imposto come sistema sociale ed economico vincente. La sua vittoria è stata talmente completa, che oggi si presenta come l’unico sistema possibile: come la forma stessa della realtà.
Come il comunismo, il capitalismo promette la felicità universale. Diversamente dal comunismo, non ha bisogno – almeno fino a un certo punto – di imporsi con la violenza e la soppressione del dissenso. Ciò che lo rende straordinariamente efficace è la sua capacità di assorbire qualunque opposizione. Il capitalismo è quel sistema in cui tutto, compreso lo stesso essere umano, è merce; tutto può essere venduto e comprato. In questo sistema anche l’opposizione diventa una merce come le altre. Se ha successo, ha mercato. È come dover fare a pugni con un avversario che, appena lo tocchi, ti trasforma e ti fa diventare come lui.
La felicità in una società capitalistica ha quattro caratteristiche. La prima è che, appunto, è una cosa che si può comprare e vendere. Se la gente pensasse di poter essere felice senza possedere una certa quantità di beni, il sistema crollerebbe. Se entri in una qualsiasi libreria, trovi diversi libri che sostengono proprio questo: che bisogna vivere con poco, riscoprire le cose semplici, eccetera. Non sono i libri più venduti, ma hanno un loro mercato. Non cambiano nulla, ma da un lato producono ricchezza, dall’altro danno a chi li legge l’impressione di fare qualcosa per smarcarsi dal sistema.
La seconda caratteristica è l’individualismo. Nella società capitalista ognuno pensa per sé. I legami sociali si sono via via allentati, la comunità ha lasciato il posto a sistemi sociali fondati sull’utile, sullo scambio, sul vantaggio reciproco. Nella migliore delle ipotesi, la socialità di estende al proprio cerchio famigliare; raramente va oltre. Quando pensa alla felicità, il membro di una società capitalista non pensa più a una società felice, sia perché il capitalismo stesso si presenta come la realizzazione in terra della maggiore felicità possibile (e del resto cosa desiderare di più?), sia perché gli hanno insegnato che è antieconomico occuparsi nientemeno che del sistema sociale. Pensi a sé, ai suoi. Ai propri figli e alla pensione, se proprio vuole pensare al futuro.
La terza caratteristica è che la felicità è legata alla sensazione. Al piacere. Una vita felice è una vita nella quale è possibile ottenere una quantità soddisfacente di sensazioni piacevoli. In cui ciò che è spiacevole viene progressivamente combattuto e debellato. La vita quotidiana diventa facile grazie ai mille rimedi pubblicizzati ogni giorno dalla televisione, e l’industria del turismo ti porta in qualsiasi momento nei posti che più desideri, se hai i soldi per pagare.
Se hai i soldi. Sei felice (o ti illudi di esserlo) se hai i soldi. Uno dei problemi del sistema è che non tutti hanno i soldi. Molti non ne hanno abbastanza, molti non ne hanno affatto. Per quanto siano molti, sono poco visibili, sia perché il sistema si fonda sulla ossessiva ripetizione di messaggi rassicuranti (tutto è bello, colorato, profumato, sensuale e alla mano), sia perché chi non ce la fa, diversamente dal passato, non pensa di essere vittima di ingiustizia, non sente di subire una oppressione o uno sfruttamento. Queste sono cose della società di un tempo. In una società felice chi non ha i soldi è colpevole. È uno che non è abbastanza in gamba per partecipare alla festa comune. E dunque si vergogna. Non bisogna nemmeno sforzarsi più di tanto per nasconderlo. Si nasconde da solo.
Un altro problema del sistema è che, anche indipendentemente dai soldi, molte persone sono infelici. Terribilmente infelici. E tra queste anche molte persone ricche. Per constatarlo basta considerare quante persone soffrono di una malattia terribile come la depressione, che nei paesi più ricchi, ad avanzata economia capitalista, giunge a colpire tre persone su dieci. Anche in questo caso, però, l’infelicità non è un problema politico, ma una questione individuale. Se soffri, in un sistema che ti offre tutto quello che occorre per essere felice, vuol dire che hai un problema tu. Non la società. Devi solo curarti. Tutto andrà bene.
In un sistema in cui la felicità è strillata ad ogni angolo, e in cui la gente si sente in colpa per non essere felice, chiunque indichi una qualche via per giungere alla felicità è destinato ad avere successo. Soprattutto vanno di moda quei sistemi che fanno appello a qualche forma di riequilibrio. Perché è diffusa la convinzione che tutto il male che soffriamo nasca da qualche squilibrio, da qualche disarmonia che abbiamo in noi, e che tutto andrà a posto se riusciamo a mettervi mano. Buona parte del successo del buddhismo in occidente è dovuto a questa convinzione. Con un po’ di meditazione, con un po’ di saggezza buddhista riusciremo a far andare le cose.
Nella società del benessere – e questa è la quarta caratteristica – nulla è davvero difficile. Non lo è prepararsi da mangiare (basta aprire una scatoletta), non lo è nemmeno diventare felici. Le farmacie hanno una offerta notevole di rimedi; se non ci si fida, è possibile ricorrere ai rimedi alternativi delle medicine naturali. Se non si ama il genere, si può leggere qualche manuale per una vita sana o di auto-aiuto psicologico. E qualcuno può sfogliare un manuale di saggezza orientale.
Il buddhismo non c’entra molto con questo tipo di felicità. Il modo in cui il Buddha pensava la felicità ha poco in comune con la felicità capitalista. Non è, se non altro, facile, alla mano, pronta all’uso. Richiede uno sforzo continuo, un esercizio costante. E, soprattutto, non ha molto a che fare con le sensazioni piacevoli.