Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.
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Ho accennato ai problemi morali che può comportare la visione della vacuità. Il mondo popolato di volti, di storie, di identità concrete non rischia di scivolare nell’indistinto? E che ne è della responsabilità verso l’altro, se l’altro non è che apparenza? Abbiamo visto che è fondamentale la distinzione tra due piani di realtà e di verità, e che lo sguardo sulla vacuità non cancella il mondo quotidiano, ma consente di considerarlo in modo diverso. Thich Nhat Hanh, di cui ti ho già parlato, va oltre: crea una suggestiva visione morale e politica fondata proprio sulla vacuità.
All’origine della visione buddhista della vacuità c’è la considerazione del carattere impermanente e privo di sé di ogni cosa. Il pensiero occidentale ha costruito il mondo come un insieme di sostanze separate, organizzate gerarchicamente, create da Dio che è la Sostanza prima, l’unica la cui essenza implica l’esistenza. Tutte le altre sostanze hanno una realtà meno solida, ma certa. Ogni cosa è sé stessa e non è altro. Per il buddhismo invece le cose sono vuote non perché prive di qualsiasi realtà, inesistenti (questo è nichilismo, considerato un errore), ma perché costituite di altro; non hanno un sé intrinseco, ma sono il risultato transitorio e momentaneo dell’intrecciarsi di diversi elementi. Il mondo appare come una sorta di grande ragnatela, in cui innumerevoli fili si intrecciano dando vita a trame fitte, che si mostrano solide solo ad uno sguardo superficiale.
Quello che in occidente è Essere, dal punto di vista buddhista è Interessere, il termine che Thich Nhat Hanh preferisce a vacuità. C’è una ragione evidente per questa scelta. Interessere enfatizza il carattere positivo di questa fitta rete di cui facciamo parte. La nostra insussistenza, il nostro non essere sostanza non è una condanna al nulla. Significa, invece, che siamo intimamente legati agli altri. Non siamo, ma inter-siamo, in senso letterale. Inter-siamo con la natura, a cominciare dall’aria che respiriamo. E inter-siamo con gli altri, non solo con le persone più vicine, che amiamo, ma con la società più in generale. La nostra vita individuale è legata a doppio filo alla vita degli altri. Posso disinteressarmi della vita comune, coltivare la mia felicità individuale senza curarmi di quella di tutti, ma l’infelicità collettiva dà poi origine a regimi violenti, che portano guerre, che distruggono la mia felicità. Interessere vuol dire responsabilità. Non posso vivere solo per me stesso, devo rispondere all’altro, che è parte di me.
L’essere fili di una medesima trama indica la nostra unità, non la nostra uniformità. Il buddhismo impegnato di Thich Nhat Hanh è in primo luogo un appello a superare la violenza ideologica che spinge a negare l’identità dell’altro, a fare guerre di religione, a sentirsi minacciati da chiunque non la pensi come noi. Il primo passo è: “Non adorerò ciecamente e non mi vincolerò a nessuna dottrina, teoria o ideologia, compreso il Buddhismo”.1 L’altro passo fondamentale è il rifiuto rigoroso della violenza, dell’uccisione e della guerra. Da buddhista, Thay sa che la guerra si alimenta della nostra rabbia e della nostra sofferenza, sulle quali occorre agire con la meditazione, ma non cade nell’errore di predicare il solo cambiamento personale, come se fosse l’unica dimensione politica. Non parla di socialismo, come Buddhadasa, ma sa bene che la violenza trae alimento dalla disuguaglianza sociale, dallo sfruttamento e dall’oppressione. “Rispetterò la proprietà altrui, ma mi batterò perché nessuno si arricchisca provocando sofferenza agli uomini e agli esseri viventi.”2 In prospettiva buddhista, la disuguaglianza e l’oppressione sociale possono essere accettati come frutto del karma. Qui a prevalere invece è la premura per tutti gli esseri viventi propria dell’etica del bodhisattva. La liberazione, insegna il buddhismo mahayana, non ha senso per noi se non è al tempo stesso per tutti. Questa liberazione, aggiunge Thich Nhat Hanh, non è solo liberazione spirituale. È anche, necessariamente, liberazione di tutti dall’oppressione, dalla schiavitù, dalla lama della povertà che apre ferite nel corpo sociale.