Svaha!

La lotta

Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.

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Ho detto che la sofferenza ci accompagna sempre. E tuttavia il buddhismo è liberazione dalla sofferenza. Da cosa ci libera, se la sofferenza ci accompagna sempre?

Ai tempi delle mie prime letture buddhiste mi ero fatto l’idea che il Dharma consenta di raggiungere uno stato di liberazione assoluta, una condizione di estinzione perfetta, superumana, di qualsiasi sofferenza. La lettura più attenta dei testi mi ha convinto che le cose non sono proprio così. Nel racconto degli ultimi giorni del Buddha, di cui ti ho già parlato, la sua sofferenza di uomo vecchio, malato, sanguinante arriva fino a noi, attraversando i secoli e la trasfigurazione dei discepoli. Ed arriva fino a noi la sua umanità. La stessa coesistenza di sofferenza e liberazione si trova in altri grandi personaggi religiosi. Uno dei più grandi mistici dell’India contemporanea, Ramakrishna, negli ultimi anni fu tormentato da un terribile cancro alla gola. I discepoli ci hanno lasciato le conversazioni che il mistico ebbe con il suo medico, poco prima di morire. Di fronte alla sofferenza del loro maestro, i discepoli moltiplicano la loro devozione, che rasenta il fanatismo. Il medico, che si chiamava Mahendralal Sarkar e molto si è speso per diffondere una mentalità scientifica nel suo paese, è disgustato da quell’atteggiamento: “Fate qualsiasi cosa, ma vi prego di non adorarlo come Dio. Facendo così, voi state semplicemente rovinando questo sant’uomo!”1 È bello che i discepoli di Ramakrishna abbiano trasmesso queste parole piene di buon senso, ma anche di umanità; parole che naturalmente non hanno impedito la divinizzazione del loro maestro.

Il Buddha soffre, Ramakrishna soffre. Sulla croce il Cristo urla il suo senso di abbandono. Dov’è la liberazione? Che differenza c’è tra loro e chiunque altro, preso dalla malattia, dalla ferita, dal taglio che sanguina? La differenza è che c’è un altrove. Non c’è solo la malattia, la sofferenza. C’è uno spazio interiore libero, anche se non è possibile stabilirsi in esso diventando del tutto indifferenti e insensibili alla sofferenza. Le ultime parole del Buddha – “lottate instancabilmente” – mi pare che si riferiscano proprio a questa lotta continua, a questo sforzo costante e difficile per attingere quello spazio interiore, quell’oltreio libero dalla sofferenza, per sottrarre momento dopo momento un briciolo di dignità agli artigli di Yama.

La lotta di Ñanavira Thera si concluse con il suicidio. A Ceylon si era ammalato di amebiasi, una malattia infettiva che gli causava sofferenze terribili, che ostacolavano la stessa pratica meditativa. A un certo punto si trovò di fronte a una scelta terribile: rinunciare alla vita monacale, constatata l’impossibilità di continuare a meditare, o lasciare la vita stessa. Decise nell’estate del 1965 – aveva quarantacinque anni – soffocandosi con un sacchetto di plastica. Qualche anno prima aveva annotato nel suo diario di aver raggiunto la condizione di “entrato nella corrente”, il primo stadio della liberazione. Ma il dolore fisico continuava a tormentarlo, rendendogli desiderabile l’altra pace, quella della morte.

  1. Maestro Mahasaya, Il Vangelo di Sri Ramakrishna, Edizioni Vidyananda, Assisi 1993, p. 227.