Svaha!

La luce della luna

Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.

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Analizziamo ancora un po’ la ruota dell’esistenza. A guardarla meglio si nota una stranezza. È una ruota che non gira, anzi che non può girare, perché è tenuta ferma, bloccata, ghermita dal dio della morte. Ti ho già detto che la parola dukkha, che indica la sofferenza, il disagio da cui parte la riflessione del Buddha, rimanda all’idea di una ruota che è uscita fuori dal proprio asse. È per questo che la ruota della nostra esistenza è una ruota bloccata. Desideriamo, amiamo, odiamo, ci facciamo del male, lavoriamo, guadagniamo soldi, li perdiamo, ci ammaliamo, eppure in questo continuo cambiamento non c’è nessun vero movimento. Procediamo a volte con sicurezza, a volte con affanno, ma siamo sempre allo stesso punto, esattamente come il povero – povero pur nella sua malvagità: povero per la sua malvagità – Angulimala, che per quanto corra non riesce a raggiungere il Buddha, che invece è fermo. Ecco: viviamo vite in continuo movimento, senza tuttavia muoverci davvero. E la liberazione è fermarsi, cominciando a camminare davvero.

C’è poi la luna. Nei monoteismi, o per meglio dire nella mistica delle religioni monoteiste, Dio è associato spesso al sole. Da questo Sole originario discende il mondo, con le sue creature sempre meno perfette, sempre più compromesse dall’ombra, ma mai del tutto lontane e separate da quella Fonte luminosa. L’espressione più suggestiva di questa metafisica della luce è la filosofia dell’iraniano Sohrawardi, che ha creato una sintesi geniale dell’antico zoroastrismo con l’islam e la filosofia platonica e neoplatonica. Ma nella mistica monoteistica Dio è spesso anche l’esatto contrario del sole: è oscurità, buio, un abisso al di là di ogni possibilità di conoscenza. La contraddizione è solo apparente, poiché il sole stesso, che è la fonte di ogni luce, non può essere guardato direttamente: pena la cecità. “Nessun uomo può vedermi e restare vivo”, dice il Dio degli ebrei (Esodo, 33, 20).

Diversa è la luna. La contemplazione della luna è uno dei temi della poesia lirica di ogni tempo e luogo. È una luce gentile, che non acceca. “Come cambia le cose / la luce della luna / come cambia i colori qui / la luce della luna”, canta Ivano Fossati in La pianta del tè. Cambia le cose, i colori per chi cammina nella notte: è la luce discreta che consente di ritrovare il sentiero. Non annulla la notte, la rende attraversabile. È questa la luce propria del Buddha: una luce che resta consapevole del buio, della notte che ognuno deve attraversare, della sofferenza che inevitabilmente ci accompagnerà sempre (ed ha accompagnato lo stesso Buddha, come abbiamo visto). È la luce del sentiero del Buddha, al cui culmine c’è quello spegnersi – ancora la notte – del nirvana.

Il Dharma del Buddha è via di mezzo. Sta tra la luce piena del sole e il buio completo della notte. Sta tra la risata e il pianto: il mezzo sorriso del Buddha – e di chiunque ne segua la via – non è forse un sorriso lunare?