Svaha!

La zattera

Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.

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Dio è una brutta faccenda. Quando hai un Dio ti sembra di avere in mano il mondo. Il tuo io cresce a dismisura. Dio è la fonte della tua sicurezza, del tuo sentirsi a casa nel mondo. Questo da un lato ti lascia alla superficie di te stesso – non vedi il tuo nulla, il tuo vuoto; non attraversi la disperazione che ti conduce al centro di te stesso ed oltre – e dall’altro fa di chiunque metta in discussione o minacci il tuo Dio, la tua rassicurante visione del mondo e la tua sicurezza esistenziale, un nemico. Da abbattere, se necessario. E forse è sempre necessario, perché l’abbattimento del nemico è parte integrante della costruzione del Dio-Sicurezza. È così che religioni che predicano l’amore – e un amore sconfinato, l’amore di chi risponde al male col bene – mettono a ferro e fuoco il mondo, sterminano, schiavizzano, sostengono feroci dittatori dicendoli mandati da Dio.

Avere un Dio – mi riferisco qui al Dio dei monoteismi – significa anche avere un Diavolo, un Anti-Dio. E il Diavolo non è altro che l’incarnazione, la rappresentazione metafisica di tutti i nemici, delle non-persone che è lecito massacrare in nome di Dio. Il Diavolo in occidente è, di volta in volta (e spesso insieme), l’ebreo, l’eretico, la donna, lo straniero; ed è, sempre, l’animale. Se si cercasse un Dio delle vittime, bisognerebbe cercarlo nel Diavolo.

Ma rinunciare a Dio non basta. Una religione senza Dio, in quanto religione, può essere ugualmente alienante, se diventa anch’essa fonte di sicurezza e una ragione per dividere il mondo in amici e nemici. Una ideologia laica può sostituire alla perfezione la religione, un capo politico o un partito possono prendere il posto di Dio, ed ecco che il mondo è ancora diviso in noi e loro, amici e nemici; ecco che accade ancora la violenza.

Il Buddha lo sapeva, o meglio lo intuiva: per questo raccontò ai suoi discepoli l’apologo della zattera1. Immaginate, disse, che un uomo si metta in viaggio e che a un certo punto giunga davanti ad un fiume. La riva è pericolosa, non c’è ponte o traghetto. Che fare per arrivare dall’altra parte? L’uomo pensa di costruirsi una zattera. La trasporta fino alla riva, ci sale sopra e attraversa il fiume. Ora, chiede il Buddha, che farà una volta giunto all’altra riva? Sarebbe saggio se, dal momento che la zattera gli è stata utile, pensasse di caricarsela sulle spalle e continuasse così il suo viaggio? No, non sarebbe saggio. La zattera gli è servita, ma ora ha esaurito il suo compito. E va lasciata lì, presso la riva. Ecco, spiega il Buddha, così è la dottrina. Così è il Dharma. È uno strumento, un mezzo che serve per attraversare il fiume della vita. Devi usarlo, ma non devi attaccarti ad esso. Questo insegnamento, preso sul serio (ma non sono troppi i buddhisti che lo prendono sul serio), sradica qualsiasi violenza religiosa. Per comprenderlo a fondo bisogna considerare la particolare concezione buddhista della verità.

  1. Alagaddupamasutta, Majjhima Nikaya, 22, in RB1, p. 239.