Svaha!

Che fare?

Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.

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“Ama e fa’ ciò che vuoi” è una delle formule di maggiore successo della storia del cristianesimo. È di Sant’Agostino, e sembra una soluzione semplice, efficace, intuitiva e profonda di uno dei problemi più difficili della nostra vita. Cosa devo fare? Come devo agire? Come posso capire cosa è giusto e cosa sbagliato? Semplice: ama. Se ami non sbagli mai, qualunque cosa tu faccia. Ma le cose non sono così semplici, perché la vita è terribilmente complessa, e non si lascia ridurre ad una formula, sia pure suggestiva. L’amore non è un punto dal quale scaturiscano in modo geometrico, necessario le azioni. Cosa vuol dire, qui ed ora, amare? E cosa fare quando due forme di amore vengono in contrasto? Ma c’è soprattutto la possibilità che l’amore diventi la giustificazione di qualsiasi azione. Sembra questo il senso della frase, se si considera il contesto. Sant’Agostino parla di rose e di spine, di carezze e di percosse. Tutti preferirebbero le prime alle seconde, ma siamo sicuri che siano buone? “Alcune cose sembrano aspre, truculente; ma si fanno per disciplina, sotto il comando della carità”, scrive. 1 Ecco il rischio. Sappiamo che Sant’Agostino, scrivendo a Bonifacio, un capo di soldati mercenari, chiede l’uso della forza contro gli eretici donatisti. Se in una casa che sta per crollare ci fossero due persone, e si rifiutassero di credere che sta per crollare e non volessero uscire per salvarsi la vita, dice, non avremmo il dovere di tirarli fuori a forza?2 Perseguitati, molti donatisti si suicidavano, ma Sant’Agostino resta impassibile: non bisogna lasciarsi impressionare, dice; la carità chiede che non ci si preoccupi di qualcuno che si getta nel fuoco, se ciò serve ad evitare che molti finiscano nell’altro fuoco, quello eterno dell’inferno.3

Con questi argomenti per secoli sono state compiute, in nome dell’amore e della carità, le violenze più atroci. L’ “ama e fa’ quel che vuoi” diventa “se amo posso farti quel che voglio”.

Vedi dunque che la domanda resta: cosa dobbiamo fare? Il Buddha ha insegnato che dobbiamo cercare la retta azione (samma kammanta). Ma cos’è la retta azione? Tradizionalmente è racchiusa nei cinque precetti (pañca sila): non uccidere, non rubare, non avere una condotta sessuale scorretta, non mentire, non usare sostanze inebrianti. La parola precetto, che implica l’idea di un comando, può essere fuorviante. Non c’è un ordine dall’esterno, l’individuo sceglie consapevolmente di incamminarsi lungo il sentiero in otto parti del Dharma, e lungo questo cammino è invitato a considerare le conseguenze delle sue azioni. Non si tratta di peccati, bensì di azioni che comportano sofferenza per gli altri, ma anche per sé.

Il quarto punto coincide sostanzialmente con la retta parola, che già conosciamo; gli altri indicano i campi significativi della nostra azione: la vita dell’altro, la proprietà dell’altro, il corpo dell’altro. L’ultimo campo, quello della lucidità mentale, è giustificato dal fatto che l’uso di alcol e droghe è in evidente contrasto con la pratica della meditazione, che mira alla assoluta chiarezza e consapevolezza, ma anche dalla considerazione che dall’alterazione psichica causata da sostanze inebrianti deriva molto facilmente la violenza nei confronti dell’altro.

Preferisco parlare di campi significativi, più che di precetti, per evidenziare il lavoro di interpretazione che richiedono. Cosa vuol dire, oggi, non rubare? Mettere le mani nella tasca di qualcuno è senz’altro un furto, ma quali, quante altre forme di furto esistono? E di quante, pur ritenendomi assolutamente innocente, sono in realtà complice? Se il mio Paese ruba le risorse di un altro paese, e io godo dei vantaggi che ne derivano, non sto rubando anch’io? Sono domande che ci conducono alla quinta parte del sentiero: il retto sostentamento, che è uno dei più importanti contributi del buddhismo all’etica mondiale.

  1. Agostino d’Ippona, Commento alla lettera di San Giovanni, omelia 7, 8. “Habent enim et spinae flores: quaedam vero videntur aspera, videntur truculenta; sed fiunt ad disciplinam dictante caritate”. 

  2. Lettera 185, 8.33. 

  3. Lettera 185, 3. 12.