Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.
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Una mattina di inizio primavera di più di una manciata di anni fa mi trovai di fronte a un dilemma. Ero in piazza del Plebiscito, a Napoli, e stavo attendendo quello che consideravo, e considero, il più grande maestro buddhista vivente: Thich Nhat Hanh. Avremmo cominciato una meditazione camminata, dando vita a un corteo lentissimo, silenzioso e fraterno. Ma, ecco, in piazza stava per iniziare anche un altro corteo: quello dei disoccupati. A quale partecipare? Rimasi perplesso per un po’, poi decisi di seguire il maestro buddhista.
Se si fosse trattato di un altro maestro, forse avrei scelto il corteo dei disoccupati. Thich Nhat Hanh, che i discepoli chiamano Thay, è colui che ha dato il maggior contributo al cosiddetto buddhismo impegnato. Un buddhismo che non volta le spalle ai problemi del mondo e cerca una liberazione spirituale che è anche, al tempo stesso, liberazione sociale, economica e politica. Vietnamita, Thay ha vissuto l’orrore della guerra, durante la quale si è impegnato nel servizio sociale in favore della popolazione. Alla fine della guerra è stato costretto all’esilio in Francia, dove ha creato l’Ordine dell’Interesse e Plum Village, una comunità monastica nei pressi di Bordeaux.
Il retto sostentamento (samma ajiva), ti dicevo, è una delle idee etiche più profonde e importanti del buddhismo. Il modo in cui ci guadagniamo da vivere può fare bene o male alla società. Possiamo scegliere un lavoro di cura dell’altro, e attraverso il lavoro migliorare la società, o al contrario guadagnarci da vivere rapinando la società, diffondendo la violenza, addirittura traendo vantaggio dalla guerra. In una società semplice non è difficile individuare quei lavori che sono incompatibili con il principio del retto sostentamento: vendere alcolici, ad esempio, oppure commerciare carne di animali, o ancora esercitare il mestiere del soldato, pratiche che sono in contrasto con i principi di non uccidere e di non usare sostanze intossicanti. In una società complessa cogliere gli aspetti violenti del nostro lavoro può essere molto più difficile. Che dire, ad esempio, dell’impiegato di una banca fortemente compromessa con il commercio di armi? Ma la domanda può estendersi a chiunque abbia rapporti economici con quella banca. È etico ottenere vantaggi economici investendo i propri soldi in una banca che a sua volta commercia in armi? Nella nostra società, nella quale il consumo ha raggiunto una pervasività impensabile ai tempi del Buddha, retto sostentamento inevitabilmente vuol dire pensare alle implicazioni delle nostre scelte di acquisto. Mi sostengo con il lavoro, che mi consente di acquistare cibo e vestiti. Ma il cibo che acquisto è prodotto con violenza? E quanto sfruttamento c’è dietro gli abiti che indosso?
Thay ha insegnato che retto sostentamento vuol dire riflettere sulle conseguenze sulla società e sull’ambiente non solo della nostra professione, ma anche del nostro stile di vita. “Non accumulerò ricchezza mentre milioni di uomini soffrono la fame”, recita il quinto precetto dell’Ordine dell’Interesse. E il dodicesimo, che riformula il secondo precetto buddhista, dice: “Non mi approprierò di quello che di diritto appartiene ad altri. Rispetterò la proprietà altrui, ma mi batterò perché nessuno si arricchisca provocando sofferenza agli uomini e agli esseri viventi”.1 Non basta non rubare, in una società profondamente ingiusta, diseguale, violenta, nella quale alla ricchezza spesso smodata di pochi corrisponde la povertà o peggio la miseria di tanti. Ecco perché quella meditazione camminata era anche una marcia in favore dei disoccupati.
Mi restano, di quella mattina, due cose tra tutte. Il sorriso di Thay, una sintesi perfetta non solo dei suoi insegnamenti, ma di venticinque secoli di buddhismo. E il sorriso, più smaliziato ma non meno bello, di un bambino che commentò il lento, lungo snodarsi del corteo dicendo: “Ma questa pace è infinita!”
Sì: la pace è infinita. C’è sempre qualcuno che si aggiunge, alla fine. Che deve aggiungersi. Perché c’è sempre altro lavoro da fare.
Thich Nhat Hanh, Essere pace, Ubaldini, Roma 1989, pp. 104 e 108. ↩