Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.
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Un giorno riferiscono al Buddha che uno dei suoi monaci si intrattiene un po’ troppo con le monache, al punto che se qualcuno gli parla male di loro, lui si irrita e protesta. Il Buddha lo manda a chiamare e gli fa la predica, ma sorprendentemente non lo rimprovera per la consuetudine con le monache, bensì per il suo attaccamento a quelle donne, che gli ha impedito di rispettare il precetto della retta parola. È facile, spiega a lui e agli altri, rispondere con gentilezza a chi è gentile con noi; è quando gli altri ci dicono cose false, o inopportune, o cariche di violenza e odio che bisogna esercitare la retta parola. Ma come fare? È chiaro che dire certe parole invece di altre, di per sé, non ha alcun valore, se quelle parole non sono vere. Dire parole gentili false è anche peggio che dire parole di odio. Occorre che ci sia una luce interna, che risplenda nelle parole e nelle azioni. Il Buddha la chiama metta, parola che viene tradotta variamente con gentilezza amorevole, benevolenza, amore universale, ma che forse è resa meglio con amicizia. Una amicizia che non si limita all’amico, ma si estende verso ogni essere. Nel corso di quello stesso insegnamento il Buddha spiega di cosa si tratta con un esempio estremo: “O monaci, anche se dei banditi, dei malfattori, vi facessero a pezzi, parte dopo parte, con una sega a due mani, colui che nutrisse pensieri di odio verso di loro non praticherebbe i miei insegnamenti”.1
So cosa stai pensando. Questa sembra una cosa impossibile, perfino peggio del porgere l’altra guancia evangelico. Ma ragioniamo un attimo. Sappiamo che l’essere umano è capace di cose orribili. Leopoldo II – con ogni probabilità il più grande criminale della storia – ha compiuto il genocidio di dieci milioni di congolesi, e pochi in Europa hanno avuto da ridire; e il secolo successivo ha visto lo sterminio di sei milioni di ebrei e due intere città rase al suolo dalla bomba atomica. Possiamo bruciare, fare a pezzi, gasare l’altro, se soltanto abbiamo una ragione per farlo, e una qualche teoria (religiosa, politica, perfino morale) che non ci faccia sentire troppo in colpa mentre lo facciamo. Ma siamo davvero solo questo? Non possiamo credere, o sperare, che oltre questo orrore ci sia qualcosa? Che l’essere umano sia capace anche dell’esatto contrario? E quand’anche non fosse davvero possibile, il crederlo non ci rende comunque migliori?
Metta è una delle quattro dimore divine (brahmavihara) di cui parla il Buddha. Le altre sono la compassione (karuna), il gioire insieme agli altri (mudita) e l’equanimità (upekkha). A me sembra che siano tutte contenute nell’amicizia. Amare l’altro vuol dire essere in grado di stargli accanto nella sofferenza, e questa è compassione. Ma amare vuol dire anche essere assolutamente privi di invidia e di quella cosa che i tedeschi chiamano Schadenfreude, provare piacere per le sventure altrui. E poiché l’amore di cui parla il Buddha non è l’amore per chi ci ama, ma è un amore che come una corrente elettrica intende percorrere l’intero campo dei viventi, oltrepassando i confini tra amici e nemici, prossimi e lontani, umani e non umani, l’equanimità è una sua componente essenziale. È questa la difficoltà più grande: riuscire a considerare l’altro indipendentemente da me. Un amore perfettamente equanime è possibile solo quando si è trascesa del tutto la percezione centrata sull’ego, una cosa che non è troppo diversa dal nirvana; ma tendere verso quell’amore, esercitarsi per esso, è una pratica quotidiana che da un lato ci spinge oltre l’io, dall’altro ci rende semplicemente più umani.
Può sembrare strano che il Buddha parli di dimore (vihara), più che di virtù o valori. Mi piace pensare che sia perché queste stelle perfette, apparentemente lontane e irraggiungibili, ci aiutano a rendere meno inospitale il nostro violentissimo mondo umano; a sperare che un giorno possa davvero diventare una dimora per tutti.
Kakacupamasutta, Majjhima Nikaya, 21, in RB1, p. 457. ↩