Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.
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Ne Il disagio della civiltà Sigmund Freud esprimeva forti perplessità riguardo alla possibilità reale dell’amore del prossimo. Perché mai dovremmo farlo? Perché amare chi non è amabile? E perché dovremmo amare perfino il nostro nemico? Sarebbe ingiusto nei confronti dei miei cari: perché dovrei metterli sullo stesso piano di un estraneo, di un nemico addirittura? “Ma soprattutto – scrive Freud – come arrivarci? Come ne saremo capaci?”1
In ambito cristiano l’amore del prossimo è legato alla fede. Poiché Dio è amore, amare Dio vuol dire anche aprire il proprio cuore, diventare capaci di quell’amore che nei santi raggiunge la perfezione evangelica. Ma il problema resta. Se non ho la fede, che fare? Come arrivarci? Come ne sarò capace?
Dopo aver dato il suo insegnamento così difficile sull’amore verso chi dovesse tagliarci a metà, il Buddha continua il suo discorso spiegando come bisogna esercitarsi, in una situazione simile. Esercitarsi, esercitarsi sempre. Come abbiamo visto, le sue ultime parole sono state un invito all’esercizio. Nel Dharma del Buddha tutto, anche l’amore, è questione di esercizio. Di tecnica. Lo so, detto così non fa un bell’effetto. Siamo abituati a considerare l’amore una cosa spontanea, l’effusione naturale del nostro cuore. Una delle convinzioni oggi più diffuse è che ragione e sentimento, mente e cuore siano due cose diverse, addirittura opposte. Ma si tratta forse di un pregiudizio, che ha l’effetto di far deflagrare il nostro mondo emotivo, senza che proviamo nemmeno a cercare una unità interiore.
Al tempo del Buddha le tecniche erano al centro dell’esperienza spirituale. I maestri incontrati dopo aver lasciato il palazzo paterno gli insegnarono soprattutto tecniche di meditazione. Il futuro Buddha considera insufficienti i loro insegnamenti e cerca la sua strada in solitudine; la trova dopo aver messo a punto una sua tecnica di meditazione che costituisce l’ultima parte del sentiero in otto parti. Ciò che la differenzia da molte pratiche sorte in ambito indiano è il fatto di avere, anch’essa, un carattere tutt’altro che esoterico. Il Buddha non afferma l’esistenza di energie sottili, di chakra, di forze misteriose da risvegliare. La sua tecnica di meditazione presuppone la comprensione del corpo e della mente come un insieme di aggregati, che abbiamo già conosciuto; una comprensione che è il risultato di una analisi di quello che siamo, che viene ripetuta, e verificata, nel corso della stessa meditazione.
Nel contesto spirituale e religioso indiano dal quale è sorto il buddhismo aveva molta importanza il calore (tapas). Attraverso le diverse pratiche – lo yoga, l’astinenza sessuale, il controllo dell’alimentazione eccetera – si sviluppa, ritenevano (ma è una convinzione che si trova ancora in Gandhi), una sorta di energia interiore, un ardore che conduce verso la dimensione più alta, quella del Divino. Anche in altre religioni l’esperienza spirituale più alta è legata al calore; in ambito cristiano si parla di fede ardente. Il buddhismo al contrario è legato piuttosto al freddo. Abbiamo visto che per il Buddha l’essere umano brucia, ed ogni sensazione, ogni desiderio alimenta la fiamma. Quello che è da fare è spegnere questo fuoco, ed a questo serve la meditazione.
S. Freud, Il disagio della civiltà (1929), in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1970, vol. 10, p. 597. ↩