Svaha!

Il limite del mondo

Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.

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Spesso i testi buddhisti contengono elementi superstiziosi, ma quasi sempre fanno da cornice a un insegnamento, e in qualche caso non manca in essi qualcosa di poetico. C’è un piccolo sutra, ad esempio, in cui il Buddha ha a che fare con un personaggio singolarissimo. Rohitassa – questo è il suo nome – si presenta in un alone di luce, come si conviene a un essere divino, ma anche con l’umiltà di chi è perplesso ed ha bisogno di capire. Ha da porre una domanda al Buddha: è possibile raggiungere camminando il limite del mondo? Il Buddha gli risponde in modo secco: no, non è possibile. Rohitassa è d’accordo con la risposta. Un tempo, racconta, aveva poteri magici che gli consentivano di volare a grandissima velocità. Per cento anni aveva volato, convinto che se avesse trovato il limite del mondo avrebbe scoperto anche la fine del dolore e della morte; ma no, non era giunto da nessuna parte, e la sua vita terrena era finita così, in questa ricerca nobile ma infruttuosa.

Ma il Buddha ha ancora qualcosa da dire. È vero, non è possibile raggiungere camminando il limite del mondo. E tuttavia questo non significa che non sia possibile. C’è un altro modo. Ci deve essere, perché se non si raggiunge il limite del mondo non è possibile superare la sofferenza. “In questo corpo, poi, o amico, alto soltanto due braccia tese, dotato di conoscenza e mente, io affermo che c’è il mondo, l’origine del mondo, la cessazione del mondo e il sentiero che conduce alla cessazione del mondo”.1 Rohitassa ha passato cent’anni a volare, mentre avrebbe dovuto guardarsi dentro. Questo guardarsi dentro è la settima parte del sentiero buddhista: la retta consapevolezza (samma sati).

“Conosci te stesso”, la massima scritta nel tempio di Apollo a Delfi, è uno dei principi che hanno orientato la ricerca filosofica occidentale. Una ricerca che ha condotto a indagare l’anima, la sua origine, il suo destino dopo la morte, o a considerare il rapporto tra quello che noi siamo e l’universo intero, tra il microcosmo e il macrocosmo. Anche quello del Buddha è un conoscere sé stessi, ma segue una logica diversa. Si può dire che l’uomo e la donna occidentali si sono interrogati, per così dire, sulla funzione – perché vivo? –, mentre il Dharma del Buddha, più concretamente, si ferma alla struttura. Cosa sono io? Cos’è il corpo? Da cosa è costituito? Da quali elementi? Cosa sono le sensazioni? Cos’è la mente? Come funziona? Quale è la sua dinamica? Quali oggetti compaiono nella mente? Come sorgono il piacere e la sofferenza? E l’io, cos’è?

Non si tratta, però, di domande teoriche. La risposta a queste domande l’abbiamo già incontrata, è la parte centrale del Dharma, ma non è ancora meditazione. La meditazione avviene quando il corpo, le sensazioni, le percezioni, la mente vengono analizzati qui ed ora, quando entro in contatto analitico con me stesso.

C’è una differenza profonda tra questo tipo di meditazione e la meditazione occidentale. Per Aristotele l’uomo realizza pienamente sé stesso solo quando esercita la parte di sé più alta, la ragione; e la ragione raggiunge il suo fine più alto quando si rivolge alle cose somme, ossia a Dio. Anche per il cristianesimo meditare vuol dire considerare le verità più profonde, il mistero di Dio che si incarna e muore sulla croce. In entrambi i casi c’è, per così dire, un movimento verso l’alto. Nella meditazione buddhista, al contrario, il movimento è verso il basso. Devo scendere in me stesso, esplorare i recessi del mio corpo, toccarne anche l’orrore, vedere con i miei occhi l’inconsistenza di ciò che chiamo io, non risparmiarmi nulla del vuoto che mi abita.

  1. Rohitassasutta, Anguttara Nikaya, 4.5.5, in RB1, p. 326.