Svaha!

Fermarsi

Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.

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Torniamo alla nostra domanda: perché dovrebbe interessarci la via del Buddha? Perché dovrebbe interessarci la sua partita a scacchi con la morte? In che senso la sua è una vittoria?

Permettimi di ricorrere ancora a Lucrezio. Vorrei dire: al mio Lucrezio. È, lo avrai capito, un autore che amo molto. Mi sono fatto l’idea, leggendo e rileggendo il suo libro, che fosse una persona buona che soffriva molto, nonostante la sua filosofia. All’inizio del terzo libro del suo De Rerum Natura parla del male. Non del male legato al fatto che siamo fragili, esposti ad ogni colpo della vita – quello che i filosofi chiamano male ontologico – ma il male che facciamo noi. Guardate, dice: c’è quello che per far carriera e soldi non esita a compiere qualsiasi disonestà, quell’altro che è roso dall’invidia, quell’altro ancora che si strugge per il desiderio di essere famoso, mentre c’è chi per far soldi causa guerre civili. Una umanità deforme, che sembra venuta fuori da un inferno dipinto da Hieronymus Bosch. Dirai: ma era il mondo romano. No: è il mondo stesso in cui siamo. La differenza è che oggi abbiamo strumenti molto più raffinati per non sembrare (principalmente a noi stessi) quello che siamo. Vendiamo armi per molti milioni di euro a paesi in guerra, diventiamo ricchi grazie alla morte di gente innocente e poi ci indigniamo se qualcuno di loro, scampato, riesce a giungere fino a noi a chiedere aiuto.

Ma sto divagando. L’essere umano fa il male. Perché? La risposta di Lucrezio è che dietro tutto questo c’è la paura della morte. Pensiamo che essere ricchi, avere successo e potere sia una condizione che ci allontana dalla morte. Pensiamo che la povertà e il disprezzo da parte degli altri siano l’opposto della vita, e che quasi ci aspettino alle porte del regno dei morti: iam leti portas cunctarier ante. Ed ecco allora che scappiamo, passiamo tutta la vita a fuggire dalla morte e da ciò che sembra assomigliare alla morte.

C’è una cosa che mi ha segnato molto, quando ero ragazzino. Sono cresciuto in anni in cui un sistema di potere e di corruzione è crollato, si è accartocciato su sé stesso. Ho visto uomini potentissimi diventare improvvisamente fragili. Ad uno, che fino a poco prima aveva in mano il Ppaese, gettarono addosso delle monete, come al più odioso dei ladruncoli. Ma a colpirmi fu soprattutto la fine di un uomo ricchissimo, un imprenditore spregiudicato, che si tolse la vita con un colpo di pistola alla testa.

Siamo come bambini, dice Lucrezio. Abbiamo paura, una paura terribile di cose che invece non dovrebbero spaventarci. Lui si riferisce al terrore di quello che la religione ci prospetta dopo la morte, e qui mi pare che si sbagli. Abbiamo il terrore di non esserci più. E, anche se non pensiamo spesso alla morte, anche se cerchiamo di rimuovere il pensiero stesso della morte, questo terrore è sempre presente. E, come dice Lucrezio, è dietro molte delle nostre azioni. E non le migliori.

Il terrore della morte è il terrore di non essere più io. Se riuscissimo a vivere in modo da non aver paura di smarrire il nostro io, se riuscissimo a collocarci in un oltre nel quale la paura dell’io non può più far presa su di noi, la morte sarebbe vinta. È in questo senso che il Buddha ha vinto la morte. Così come l’hanno vinta Eckhart, Margherita Porete e al-Hallaj. Hanno fatto un grande salto oltre sé stessi e sono giunti in un altrove in cui la morte non è in grado di raggiungerli. Ma meglio forse sarebbe dire che si sono semplicemente fermati.