Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.
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La religione fa molte vittime. In nome di Dio – del proprio Dio – si uccidono soprattutto quelli di altre religioni, quelli che hanno un Dio con un altro nome. Ci sono gli atei, poi, la cui colpa è quella di ritenere improbabile che un Dio che ha creato l’universo sia anche quel tale un po’ burbero, ma in fondo buono, cui rivolgiamo le nostre preghiere, sempre pronto a distrarsi dalla direzione dell’universo per occuparsi delle importantissime vicende del signor Taldeitali o per scegliersi un popolo e guidarlo contro gli altri popoli che lui stesso ha creato, incitandolo al massacro e alla conquista di una terra che, chissà perché, decide di promettergli pur sapendo che per ottenerla dovrà fare una guerra. C’è poi il mistico. La colpa del mistico, ciò per cui spesso finisce sul rogo o in croce, è quella di far saltare la rispettosa distanza tra Dio e l’uomo. Dio è a nostra disposizione, si occupa di noi, possiamo dargli del tu, ma in fondo è Dio, meglio non prendersi troppe confidenze. Meglio mantenere una distanza. Il mistico no, non vuole saperne di distanze. Si avvicina fino a essere tutt’uno con Dio. A essere Dio. E in questo oltre, in questo altrove, dice cose terribilmente imbarazzanti. Dice che l’io è falso, dice che le religioni sono dei confini arbitrari, dice che lo stesso Dio, così come ne parlano i credenti, non esiste. Il mistico finisce per assomigliare all’ateo. Entrambi suscitano il terribile sospetto che il Dio in cui si crede, il Dio nel cui nome si ama o si odia, si aiuta o si uccide, il Dio per il quale si è salvati o si è dannati sia in realtà soltanto un penoso fantoccio metafisico creato per sostenere i nostri miserabili egoismi individuali e gli ancor più miserabili egoismi collettivi.
Al-Hallaj vuol dire “il cardatore”, nome che gli veniva dalla professione del padre. Era nato in un villaggio dell’Iran nell’857 e già a sedici anni aveva iniziato la sua formazione sotto un maestro sufi. Non ci mise molto a diventare un maestro con un seguito di centinaia di discepoli, di quelli che sanno parlare al popolo e spaventano il potere. Dopo un lungo viaggio, che lo aveva portato ai confini occidentali della Cina, si stabilì a Baghdad, che era allora una delle città più grandi e potenti del mondo. Qui passò nove anni in carcere e il 26 marzo del 922 venne ucciso. Lo flagellarono davanti alla folla, poi gli tagliarono le mani e i piedi e lo issarono su una croce. Lo lasciarono lì per tutta la notte, e al mattino lo decapitarono e bruciarono il suo corpo.
La sua colpa era di aver detto: Ana’l-Haqq, “io sono la Verità”. Verità è uno dei nomi principali di Dio: dicendo di essere la Verità, al-Hallaj diceva di essere Dio. Diceva l’indicibile. In una delle sue poesie si legge:
Ho visto il mio Signore con l’occhio del mio cuore; gli ho chiesto “chi sei?”, m’ha detto “tu”!1
E in un’altra:
Ho molto pensato alle religioni, per capirle, e ho scoperto che sono i molti rami di un’unica Fonte. Non pretendere dunque dall’uomo che ne professi una, così s’allontanerebbe dalla Fonte sicura.2
Le religioni allontanano da Dio, o dalla Fonte (e potremmo dire: dalla realtà, dall’essere, dalla verità che è oltre la nostra percezione distorta delle cose), e per questo non occorre professarne alcuna. Aveva ragione, ma è una ragione che si paga con la vita.