Svaha!

Gabbie

Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.

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Siamo giunti alla fine. Può essere che dopo aver letto questo libro ti venga il desiderio di leggere i sutra buddhisti o di approfondire la conoscenza del buddhismo theravada, di quello tibetano o dello zen giapponese. Ne sarei felice. Può essere anche che tu giunga, prima o poi, a definirti buddhista. In questo caso ti chiedo scusa per aver contribuito alla tua corruzione, anche se ho la scusante di averti messo in guardia fin dalle prime righe.

Te lo ripeto, in conclusione: tutte le identità, compresa quella personale, sono trappole. Ti ho parlato dell’esempio della zattera, usato dal Buddha per indicare la natura del Dharma. Definirsi, pensarsi come buddhista significa prendere la zattera, arrivare dall’altra parte del fiume e poi, invece di procedere oltre, girare la zattera e fare il percorso a ritroso, e così all’infinito. Significa non traghettare sé stessi (traghettarsi oltre sé stessi), ma restare bloccati in un frustrante, insensato andare e venire.

Un giorno il Buddha parlò ai suoi monaci paragonando il Dharma e la comunità dei monaci all’oceano. Come i fiumi una volta giunti all’oceano perdono la loro identità e non sono altro che oceano, così i membri delle diverse caste una volta giunti nel Sangha non sono che seguaci del Buddha; e come il mare si libera di ogni impurità riportandola sulla spiaggia, così il Sangha si libera di ogni persona impura, falsa, corrotta che si trovi al suo interno semplicemente non associandosi ad essa. E: “Come il grande oceano, o monaci, ha un solo sapore, quello del sale, così anche questo Dharma e questa disciplina hanno un solo sapore, quello della liberazione”. 1 Permettimi di riportarti il testo pali:

Seyyatha pi bhikkhave mahasamuddo ekaraso lonaraso, evam-eva kho bhikkhave ayam Dhammavinayo ekaraso vimuttiraso.

Non è infrequente che la parola che ho tradotto con liberazione – vimutti – sia tradotta con libertà (freedom, in inglese). C’è però una differenza importante: liberazione include l’idea di uno sforzo, di un movimento attivo. Questo senso è confermato da un’altra parola, che spesso nelle traduzioni viene semplicemente omessa: vinaya, disciplina. Così tradotto il passo è senz’altro meno suggestivo, ma più aderente al suo senso reale.

Nella tradizione greco-cristiana la liberazione è quella dell’anima dalla prigione del mondo fenomenico, il ritorno all’origine dopo la caduta, l’uscita dalla dimensione del peccato per ricongiungersi a Dio. Non così nel Dharma. Non c’è un altro mondo oltre questo, non c’è un’uscita su un’altra dimensione. Uno dei maestri incontrati dal futuro Buddha dopo essersi messo in cammino, Alara Kalama, insegnava delle pratiche grazie alle quali lo spirito sguscia via dal corpo, diceva, come un uccello dalla gabbia.2 Ma il Buddha, come sai, rifiutava l’esistenza di qualsiasi entità spirituale. Non c’è nessuna anima da liberare dal corpo.

Ma cos’è, allora, la liberazione? Si tratta, vedi, di comprendere la gabbia che siamo. E di evitare di costruire nuove gabbie nel tentativo di liberarci dalla gabbia che siamo per noi stessi. Compresa la gabbia del Dharma.

  1. Udana, Khuddaka Nikaya, 3, V, 5. 

  2. Asvaghosha, Le gesta del Buddha, XII, 64, in RB1, p. 1071.