Svaha!

Havel havalim

Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.

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Il sole non è ancora sorto. Qualche fioca luce attesta l’esistenza del paese, di là dalla valle; ma la valle è ancora immersa nell’oscurità. Fa freddo. Torno nel mio studio, con un brivido. Eccolo, il mio studio: alle pareti le care immagini della dea Saraswati e del dio Shiva, in un angolo la mia chitarra, sulla scrivania i libri ammassati uno sull’altro, in un angolo una statua di legno che raffigura un uccello che imbecca il suo pulcino. Questo è il mio mondo, lì sicuro, disponibile, solido: sono pronto per cominciare la mia giornata.

So, a dire il vero, che tutte queste cose esistono solo nella mia mente. I recettori della retina attraverso il nervo ottico portano le informazioni alle aree posteriori del cervello, che elaborano le immagini nelle quali ora sono immerso. Quello che vedo dipende dunque da due cose: il mio occhio e il mio cervello. Se le aree del cervello che elaborano le immagini fossero danneggiate, non vedrei nulla. E non vedrei nulla se fossero danneggiati i miei occhi.

I miei occhi sono uno strumento meraviglioso, ma al tempo stesso limitato. Mi permettono di vedere molte cose, ma molte, moltissime altre cose restano al di fuori della sua portata. Lo sguardo si arresta alla superficie, per così dire. Mi permette di vivere in un mondo di cose. Ma cosa c’è dietro la superficie delle cose? Sappiamo che la materia è composta di molecole e che noi stessi siamo fatti di cellule, di molecole, di atomi. E gli atomi a loro volta sono composti di neutroni, protoni, elettroni. Quello che vediamo non è che una interpretazione della realtà, e una interpretazione dovuta alla imperfezione dei nostri occhi. Se avessimo degli occhi perfetti, in grado di penetrare la realtà, il paese al di là della valle non ci sarebbe più, e non ci sarebbe il mio studio, e non ci sarebbero Saraswati e Shiva, e non ci sarebbero i miei libri. Ci sarebbero atomi. E chissà cos’altro.

Sono seduto nel mio studio, in una casa al secondo piano di un edificio ai margini del paese, lungo una strada che si immerge nel buio dei colli. Chiudo e provo a immaginare la mia posizione dall’alto. Eccomi qui, un puntino sulla mappa della mia regione. Ma allargo lo sguardo: la mia stessa regione è un puntino sulla mappa, ora; sulla mappa ci sono i continenti: e molta acqua. Ora allargo ancora lo sguardo. Ecco il pianeta circondato dal buio dello spazio, ecco il sole, ecco i pianeti. E vado oltre: ecco le stelle, ecco la Via Lattea, con i suoi miliardi di stelle. E no, non mi fermo. Ecco le altre galassie, ognuna con i suoi miliardi di stelle. Ecco la rete immensa, più grande, infinitamente più grande di qualsiasi divinità che il bisogno umano di concepire qualcosa di trascendente sia mai riuscito ad immaginare.

Qui, seduto al mio studio, occupo un punto infinitamente piccolo dell’universo di cui faccio parte – che potrebbe essere uno dei tanti universi che esistono – e sono circondato da cose che non sono cose, da cose che appaiono solide e rassicuranti solo perché il mio sguardo non me ne restituisce che la superficie.

Havel havalim, amar Qohelet. Havel havalim hakol havel. “Vanità delle vanità, ha detto Qohelet. Vanità delle vanità. Tutto è vanità.” È l’inizio di Qohelet, uno dei libri più belli e più veri della Bibbia. Havel in ebraico indica propriamente il fumo, il vapore. “Fumo di fumi, tutto non è che fumo”, traduce Guido Ceronetti. Nel tempo necessario per scrivere queste righe il giorno è sorto e si mostra ora affaticato di nuvole, mentre la nebbia pesa sulle colline. Havel havalim. Il vapore delle cose. Lo sguardo ci offre un mondo allo stato solido, un mondo di cose da osservare, toccare, desiderare, amare. La conoscenza ci offre un mondo diverso. Un mondo che evapora, ci svanisce tra le mani. Un non-mondo di non-cose, tra le quali si muove un io illusorio, mutevole, che di continuo si annulla in sé stesso.

Dirai che forse è meglio non vedere: che non ti piace questo nuovo mondo evanescente. Posso capirlo. Nella Bhagavad-Gita, uno dei testi più importanti dell’induismo, Dio si manifesta al soldato Arjuna, gli mostra il suo vero volto. E Arjuna resta spaventato, gli si rizzano i capelli sulla testa per il terrore. E prega Dio di rimuovere quella immagine insostenibile. Lo stesso, del resto, vale per il nostro sole. È solo una piccola stella persa in un reticolo di infinite stelle, eppure non possiamo guardarlo senza accecarci. Ma sappiamo che c’è, e godiamo della sua luce.

Si tratta di imparare a stare nella nera luce di questo non-mondo.