Svaha!

Il vaso magico

Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.

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Secondo una tradizione che risale a san Girolamo, il poeta e filosofo latino Lucrezio morì suicida all’età di quarantaquattro anni, dopo essere impazzito a causa di un filtro d’amore. Girolamo non è una fonte attendibile: come cristiano è interessato a mostrare la fragilità di un filosofo pagano; ma leggendo il poema di Lucrezio, il De Rerum Natura, colpisce la sensibilità profonda per il dolore umano e la visione disincantata – dolorosamente disincantata – dell’esistenza.

All’inizio dell’ultimo libro del poema, il sesto, Lucrezio parla della nostra infelicità. Anche se abbiamo i beni sufficienti per vivere come desideriamo, anche se abbiamo lodi e onori e siamo potenti, dice, tuttavia soffriamo. C’è in noi qualcosa di cupo, un’ansia che ci tormenta a ci scava dentro e non ci lascia un attimo di pace. Il problema è che noi siamo fatti male. Siamo, dice, come un vaso un po’ forato e un po’ sporco di qualcosa di sgradevole. Se ci versi dentro qualcosa – anche il vino più pregiato – in gran parte va perso, e quel che viene trattenuto si corrompe (Libro VI, vv. 9-23).

In nessuna società umana il vaso è mai stato così colmo. Quella sicurezza dei beni di cui parlava Lucrezio più di duemila anni fa oggi è, per noi, sicurezza di beni anche superflui. Le condizioni di vita di un abitante medio di una delle società privilegiate di oggi sono di gran lunga migliori di quelle di un nobile o perfino di un re dei secoli passati. E tuttavia l’infelicità non è affatto diminuita. Si direbbe, anzi, che sia aumentata, e che sia aumentata proprio nelle società privilegiate.

Anche se il sistema dei consumi cerca costantemente di convincerci del contrario, non occorre molta riflessione per comprendere che no, il possesso di beni non ci rende felici.

Sia Lucrezio (che segue la dottrina del filosofo Epicuro) che il Buddha sanno che andare alla radice del problema della sofferenza significa occuparci di noi stessi. Da una parte bisogna riparare il vaso affinché non perda, dall’altra è necessario individuare le sostanze corrosive e guaste che sono presenti all’interno del vaso e rimuoverle. Per entrambi l’unica via di liberazione consiste nella conoscenza. Ma quale conoscenza? Qui le strade di Lucrezio e del Buddha si separano. Per Lucrezio è la religione alla radice dell’angoscia; quella religione che ci insegna che dopo la morte esiste l’Acheronte e che dobbiamo temere gli dei, riempendo la testa alla gente di superstizioni e terrori. Ed ecco, basta considerare il mondo, vedere la natura, constatare che tutto è fatto di atomi e di vuoto, che gli dei stanno pacifici per conto loro e nulla interessa loro meno delle faccende umane, per vivere una vita serena, secondo natura, libera dall’angoscia e dalla paura. Il Buddha si allontana dalla religione del suo tempo – di cui rigetta la divisione in caste della società, i sacrifici animali e l’autorità dei libri sacri – ma non crede affatto che ciò sia sufficiente. L’angoscia che proviamo non deriva dalla religione, ma dalla nostra mente. Siamo pieni di paure, prima fra tutte la paura di morire, ed abbiamo paura di morire non perché temiamo quello che potrà succedere dopo la morte, ma perché temiamo di non essere più noi: abbiamo il terrore della fine del nostro io.

Nel vaso che noi siamo ci sono sostanze guaste, che rovinano qualsiasi cosa vi si versi. Individuare queste sostanze guaste e rimuoverle è una delle cose da fare. Ma bisogna anche comprendere che queste sostanze guaste non sono finite chissà come nel vaso, ma sono prodotte dal vaso stesso. Noi siamo un vaso che cerca di accogliere in sé le sostanze più preziose, ma che inevitabilmente le altera con il proprio abbraccio contaminante. Il problema è il nostro stesso essere vaso. Che vuol dire abbracciare, contenere, limitare: possedere. L’atto di possedere altera ciò su cui si esercita.

Vedi dunque quale impresa strana si presenta ora. Questo vaso mezzo rotto, incapace di trattenere gran parte di ciò che vi si versa e che guasta quel poco che trattiene, bisogna romperlo del tutto: mandarlo in frantumi. E solo quando esso non ci sarà più, quando sarà svanito il trattenere, il possedere, il limitare – tutte le cose proprie dell’io-vaso – sarà possibile diventare un vaso di un altro genere. Un vaso di cristallo, che non trattiene ma abbraccia, un vaso magico che non altera le sostanze che vi si versano, ma al contrario le trasforma in purezza: e gioia.