Svaha!

Il disincanto

Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.

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Noi esseri umani siamo un mistero per noi stessi. È un mistero la nostra coscienza, che una volta attribuivano ad un’essenza spirituale, l’anima, e che ora sappiamo essere connessa ad un organo del nostro corpo, il cervello. Ma ci sfugge in che modo da elementi materiali come i neuroni, le sinapsi, i neurotrasmettitori, possa scaturire qualcosa di così diverso dalla materia, come la coscienza, il pensiero, l’immaginazione, la musica. È un mistero il fatto stesso che diciamo io e che nel farlo ci distanziamo da tutto ciò che pure ci costituisce. In questo momento io sto riflettendo sulle cose da dirti, che cerco di esprimere in parole il più possibile chiare; quindi muovo le mie mani sulla tastiera del computer e scrivo. Io muovo le mie mani e scrivo sulla mia tastiera. Sia la tastiera che le mani sono mie, ma ovviamente c’è una differenza notevole tra la prima e le seconde. Se qualcuno colpisse la tastiera con un martello io non sentirei alcun dolore, mentre soffrirei molto se colpisse le mie mani. E tuttavia sono due cose che io definisco “mie”, prendendo qualche distanza. Io non sono, senz’altro, la tastiera del mio computer, ma dicendo “le mie mani” io attesto anche di non essere, appunto, le mie mani. Sono un mio strumento, ma non sono me.

Una cosa più complessa riguarda l’espressione “il mio corpo”. Dicendo queste parole noi prendiamo distanza da tutta la nostra forma corporea, ma si tratta di un caso diverso da quello delle mani. Io potrei anche vivere senza le mie mani, anche se con diverse difficoltà, per cui posso considerare le mani una parte di me. Ma che dire del corpo intero? Posso vivere senza tutto il mio corpo? Lo abbiamo immaginato per secoli, ma ora non crediamo troppo nella scissione tra corpo ed anima. E tuttavia continuiamo a considerare il corpo come una cosa che abbiamo, non come una cosa che siamo.

Ma anche più misterioso è il fatto che possiamo fare la stessa cosa con la parte più intima di noi stessi. Io posso dire che “il mio corpo è stanco”, ma posso dire anche che “la mia mente è stanca”. Ed anche qui, è evidente che se parlo di “mia mente”, io non sono la mente. Io sono il possessore della mente, uno che la guarda dal di fuori e che può considerarla stanca o rilassata, confusa o leggera, piena di pensieri o concentrata.

Chi è che dice, dunque, “la mia mano”, “il mio corpo”, “la mia mente”? Lasciamo in sospeso la questione. Non sono sicuro, a dire il vero, che riuscirò a dirti qualcosa al riguardo. Ogni libro lascia dietro di sé un non detto (o un indicibile), e può essere che questo sia il non detto di questo libro.

Questa fuga dentro noi stessi, così misteriosa, ha però questo di positivo: noi possiamo distaccarci. Se qualcuno mi colpisse alla mano, io proverei dolore. Il dolore potrebbe essere anche molto forte, e tuttavia resterebbe il dolore della mia mano. Una parte di me starebbe soffrendo; ed io potrei comunque, sempre, prendere le distanze da questa sofferenza. È difficile, ma non impossibile.

Nel sutra sul fuoco che ci brucia il Buddha introduce un termine non molto usato, poi, dai buddhisti, ma che mi sembra fondamentale per comprenderne l’insegnamento: nibbida. Si traduce in genere con “disincanto” o “sereno disincanto”. La parola è formata da una radice negativa e dal verbo vindati, che vuol dire trovare, conoscere. Nibbida è la disillusione di chi non si lascia più ingannare dal gioco dell’attaccamento, di chi non cerca più nulla nel mondo. Nemmeno la liberazione dalla sofferenza.