Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.
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C’è stato un periodo, nella mia adolescenza, in cui credevo nella reincarnazione. Nella metempsicosi, per essere preciso. Credevo che dopo questa vita ne avrei avuta un’altra, e poi un’altra, e un’altra ancora. Credevo che sarei rinato come essere umano, ma anche come animale o pianta. Questa credenza però non aveva nulla di pessimistico, come nel buddhismo. Ero convinto che questo continuo reincarnarsi avesse una logica meravigliosa. Chi aveva compiuto il male in questa vita, lo avrebbe subito nella successiva. In questo modo avrebbe compreso cosa vuol dire fare del male e si sarebbe convertito al bene. Chi aveva disprezzato la vita non umana sarebbe rinato animale. Eccetera. In questo modo tutte le anime, attraverso un processo pedagogico cosmico inesorabile, sarebbero giunte al Bene finale. Nessuno si sarebbe dannato per l’eternità. La salvezza sarebbe stata universale. E ciò sarebbe avvenuto grazie ad una legge di cui già allora conoscevo il nome: il karman. Ciò che fa sì che l’azione compiuta in questa vita porti a dei frutti nelle prossime vite.
Benché credessi nell’amore come destinazione unica di tutti, da adolescente non ero granché capace di amare. La convinzione di possedere nulla di meno della conoscenza del senso del tutto, della vita e della morte, della sofferenza e del male, mi dava un’aria di superiorità che era poco compatibile con l’amore o anche solo con la simpatia umana.
Sono uscito da questa fase, a dire il vero abbastanza breve, riflettendo su un paio di cose. Io mi reincarnerò, rinascerò umano o animale. Bene. Ma evidentemente, se rinascessi, poniamo, volpe, non sarei proprio io, così come se mi reincarnassi in un essere umano di una società asiatica del venticinquesimo secolo. Io, la volpe e l’uomo del futuro siamo esseri diversi. Chi si reincarna? Evidentemente esiste una essenza al di sopra di me – chiamiamola Anima o Spirito – che è diversa dalla mia mente, dalla mia personalità, da tutto ciò che considero il mio io. Ed è questo Spirito che si reincarna, non io. Quando muoio, io muoio del tutto, non resta nulla di me in questo Spirito, che è altro da me. O forse qualcosa resta, ma non resto io. La reincarnazione non era una risposta al problema della morte. Se sopravvive altro da me, non c’è bisogno di pensare ad uno Spirito. Si può avere una fede laica nell’umanità, o qualcosa del genere, senza offendere troppo la ragione.
L’idea del karman esercita una attrazione quasi irresistibile. Ai tempi dei Buddha sembra essere la vera questione filosofico-religiosa sul tavolo. Non l’esistenza o meno di Dio, o degli dei, bensì la realtà del karman. Come funziona? È possibile sfuggirgli? E come? La questione era angosciosa, poiché a far nascere un frutto doloroso non era solo l’azione evidentemente malvagia, bensì, in alcune interpretazioni, l’azione stessa. Era come se agire, vivere nel mondo, comportasse una violenza inevitabile, che a sua volta avrebbe fatto maturare frutti dolorosi in una prossima rinascita, in una spirale di violenza e di dolore dalla quale sembrava impossibile uscire. Così non l’azione vistosamente colpevole, violenta o immorale, ma l’azione stessa finiva per diventare sospetta. Nel jainismo si cerca di liberarsi da questa colpa incombente con l’ideale, che ha in sé molte cose belle, dell’ahimsa radicale, ossia l’innocenza, il non nuocere ad alcun essere vivente. Che però, dal momento che la violenza è un rischio presente in quasi tutte le azioni, finisce per condurre ad un’etica della non azione.