Svaha!

Il male

Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.

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Il buddhismo, come probabilmente ogni religione, se non ogni filosofia, parte dal male. Il problema del male attraversa tutta la Bibbia, fin dal primo libro: la Genesi. Il mito di Adamo ed Eva cerca di rispondere a una delle domande più angosciose per un credente: se c’è Dio, perché esiste il male? Un’altra domanda che tormentava gli ebrei era: se c’è Dio, ed è buono e giusto, perché gli uomini buoni soffrono ed i malvagi vivono ricchi e felici?

Il libro biblico che impone con forza, anzi con violenza questa domanda è quello di Giobbe. È la storia di un uomo giusto e timorato di Dio che all’improvviso si trova a perdere tutto: la moglie e i figli, le ricchezze, la salute. Si tratta di una brutta scommessa di Dio con Satana, ma lui non lo sa. Quello che sa è che lui, che teme Dio, si trova disperato, povero, solo: nudo. Gli amici vanno a trovarlo e cercano di convincerlo che se si trova in quello stato è perché ha fatto qualcosa di male: perché Dio è giusto e punisce chi fa il male. Giobbe protesta la sua innocenza, poi di fronte all’insistenza degli amici si lascia andare a potenti bestemmie. Dio è un essere terribile che, quando una tragedia fa morire molte persone, se la ride della disgrazia degli innocenti, e lascia le nazioni in mano ai malvagi (Giobbe 9, 23-24). La cosa interessante, o sconcertante, di questo libro è che alla fine Dio stesso interviene e finisce per dare ragione a Giobbe. Si scaglia contro uno degli amici di Giobbe: “La mia ira si è accesa contro di te ed i tuoi due amici, perché non avete detto di me cose rette, come ha fatto il mio servo Giobbe” (Giobbe 42, 7). Ma Giobbe ha detto cose che alle orecchie dei credenti suonano come bestemmie.

Il male da cui parte il buddhismo non è questo. Perché i giusti soffrono e i malvagi sono felici è una domanda che non appassiona gli indiani. La ragione è che le diverse religioni indiane, comprese quelle meno ortodosse, come il buddhismo, condividono la concezione del karman. Credono, cioè, che ogni nostra azione produca un frutto per noi stessi. Se abbiamo compiuto azioni positive il frutto sarà positivo, se abbiamo fatto del male il frutto sarà negativo. È una cosa banale, dirai. È evidente che se fai del male ne paghi le conseguenze, a meno che tu non abbia molta fortuna. Ma per gli indiani si tratta di un meccanismo implacabile. Se hai fatto del male, ti succederà qualcosa di doloroso: è inevitabile. E se non ti succede in questa vita, succederà nella prossima. Questo vuol dire che il malvagio pagherà per il suo male, anche se ora sembra felice. E pagherà senza nessuno sconto. Torneremo su questa dottrina e sui problemi che comporta.

Per un ebreo e un cristiano il mondo è un luogo in cui succedono molte cose che non dovrebbero, e bisogna appellarsi di continuo a Dio ed alla sua giustizia perché in questo caos regni un po’ di ordine. La cosa non funziona molto, e ci si ritrova con domande come: se c’è Dio, perché non ha ascoltato le preghiere degli ebrei ad Auschwitz? Una delle domande centrali della teologia del Novecento. Per un indiano invece il mondo è un meccanismo perfetto, in cui al male corrisponde il male, al bene il bene.

Il mondo è ordinato, e tuttavia c’è il male. Non il male della ingiustizia cosmica. Il male inteso come semplice, e terribile, male di vivere. La sofferenza di stare al mondo, il fuoco che brucia le nostre vite, il dolore che accompagna i nostri passi. Il Buddha usa una parola per indicare questo male: dukkha. È una parola che si traduce spesso con sofferenza, ma non è una traduzione perfetta. La parola rimanda ad una immagine: quella della ruota di un carro che è fissata male al suo asse. Disagio forse indica meglio il concetto. Disagio non è solo il dolore e la sofferenza; è anche la noia, l’ansia, il non voler essere qui e non conoscere un altrove. Il disagio di vivere: questo è il problema.