Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.
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Dopo aver raggiunto il risveglio il Buddha si mette in cammino per cercare gli asceti che lo accompagnavano prima che decidesse di proseguire la sua ricerca da solo. Li trova nel Parco delle gazzelle, presso l’attuale Benares, e tiene loro un discorso con il quale comincia la storia del buddhismo (non a caso il sutra che lo riporta si intitola Discorso della messa in moto della ruota del Dhamma)1.
Comincia parlando loro della verità del dolore, la verità che ha scoperto uscendo dalla reggia paterna. Le sue parole ci aiutano a comprendere la sua visione della sofferenza e della condizione umana. Dice che dolore è: la nascita, la vecchiaia, la malattia, la morte; unirsi con quello che ci dispiace ed essere separati da ciò che ci piace; non ottenere quello che desideriamo. Alcune di queste cose hanno a che fare con il corpo, altre con la mente; alcune possono riferirsi sia al corpo che alla mente. Se abbiamo fame e non c’è cibo, il disagio riguarda il non ottenere quello che desideriamo, ed è un disagio fisico; se invece aspiriamo ad una promozione sul lavoro, e questa non arriva, il disagio ha un carattere mentale. Se abbiamo una malattia, soffriamo fisicamente; se perdiamo la persona che amiamo, la sofferenza è mentale.
A ben vedere, però, raramente la sofferenza è fisica, o solo fisica. Consideriamo la vecchiaia. Essere vecchi comporta la perdita del vigore fisico e spesso si associa alla malattia, ma ciò che fa soffrire più della vecchiaia − di una vecchiaia vissuta male − è la non accettazione della condizione in cui si è: il desiderio di essere diversi, la nostalgia della giovinezza, la paura della morte. Tutte queste cose sono mentali.
Quando leggiamo le parole che il Buddha rivolge agli asceti nel Parco delle gazzelle abbiamo l’impressione che parli direttamente a noi. Ognuno di noi ha sperimentato quelle forme di sofferenza. Ognuno di noi sa cosa vuol dire soffrire perché la persona che amiamo non è più con noi, ad esempio. È un essere umano che parla della condizione umana, e ne parla toccando il punto più profondo. Un punto che nella nostra società del benessere e dei consumi cerchiamo di occultare. Abbiamo a nostra disposizione la più impressionante industria del divertimento che sia mai esistita, e lavora giorno e notte per non farci pensare al negativo. Viviamo in un mondo dal quale ogni segno di fragilità umana viene attentamente rimosso. La vecchiaia non è un problema: le rughe possono essere spianate, i segni del tempo cancellati con la chirurgia estetica. Il risultato è che il vecchio, che una volta incarnava la saggezza ha oggi sempre più spesso il volto di plastica. Un non-volto, una maschera che è il vero volto della società dei consumi. Un volto inquietante.
La rimozione non funziona. Il negativo che si cerca di esorcizzare torna con prepotenza. Un giorno ti guardi allo specchio e ti accorgi di non avere più il tuo volto, e di essere tuttavia vecchio: e stanco. E solo: perché in quel momento il sistema delle rassicurazioni non ti sostiene più. È il momento della disperazione.
Altri − non molti, a dire il vero − si danno a pratiche religiose ossessive. Più si avvicina la morte, più sgranano rosari, frequentano chiese, riprendono i testi sacri che hanno ignorato per tutta la vita. Si aggrappano alla speranza religiosa, ma con disperazione. È una delle strategie della mente: quando la realtà diventa intollerabile, ci si rifugia in un mondo di fantasia, popolato di angeli, santi, dèi pronti a soccorrere e paradisi a buon mercato.
La via del Buddha è un’altra. C’è la sofferenza. La sofferenza è fisica, ma soprattutto mentale. È la nostra mente che ci fa soffrire. E allora si tratta di cercare la guarigione dalla nostra sofferenza occupandoci della mente. Si può dire che siamo nel campo della psicoterapia, qualche millennio prima di Freud.){1}.
Comincia parlando loro della verità del dolore, la verità che ha scoperto uscendo dalla reggia paterna. Le sue parole ci aiutano a comprendere la sua visione della sofferenza e della condizione umana. Dice che dolore è: la nascita, la vecchiaia, la malattia, la morte; unirsi con quello che ci dispiace ed essere separati da ciò che ci piace; non ottenere quello che desideriamo. Alcune di queste cose hanno a che fare con il corpo, altre con la mente; alcune possono riferirsi sia al corpo che alla mente. Se abbiamo fame e non c’è cibo, il disagio riguarda il non ottenere quello che desideriamo, ed è un disagio fisico; se invece aspiriamo ad una promozione sul lavoro, e questa non arriva, il disagio ha un carattere mentale. Se abbiamo una malattia, soffriamo fisicamente; se perdiamo la persona che amiamo, la sofferenza è mentale.
A ben vedere, però, raramente la sofferenza è fisica, o solo fisica. Consideriamo la vecchiaia. Essere vecchi comporta la perdita del vigore fisico e spesso si associa alla malattia, ma ciò che fa soffrire più della vecchiaia − di una vecchiaia vissuta male − è la non accettazione della condizione in cui si è: il desiderio di essere diversi, la nostalgia della giovinezza, la paura della morte. Tutte queste cose sono mentali.
Quando leggiamo le parole che il Buddha rivolge agli asceti nel Parco delle gazzelle abbiamo l’impressione che parli direttamente a noi. Ognuno di noi ha sperimentato quelle forme di sofferenza. Ognuno di noi sa cosa vuol dire soffrire perché la persona che amiamo non è più con noi, ad esempio. È un essere umano che parla della condizione umana, e ne parla toccando il punto più profondo. Un punto che nella nostra società del benessere e dei consumi cerchiamo di occultare. Abbiamo a nostra disposizione la più impressionante industria del divertimento che sia mai esistita, e lavora giorno e notte per non farci pensare al negativo. Viviamo in un mondo dal quale ogni segno di fragilità umana viene attentamente rimosso. La vecchiaia non è un problema: le rughe possono essere spianate, i segni del tempo cancellati con la chirurgia estetica. Il risultato è che il vecchio, che una volta incarnava la saggezza ha oggi sempre più spesso il volto di plastica. Un non-volto, una maschera che è il vero volto della società dei consumi. Un volto inquietante.
La rimozione non funziona. Il negativo che si cerca di esorcizzare torna con prepotenza. Un giorno ti guardi allo specchio e ti accorgi di non avere più il tuo volto, e di essere tuttavia vecchio: e stanco. E solo: perché in quel momento il sistema delle rassicurazioni non ti sostiene più. È il momento della disperazione.
Altri − non molti, a dire il vero − si danno a pratiche religiose ossessive. Più si avvicina la morte, più sgranano rosari, frequentano chiese, riprendono i testi sacri che hanno ignorato per tutta la vita. Si aggrappano alla speranza religiosa, ma con disperazione. È una delle strategie della mente: quando la realtà diventa intollerabile, ci si rifugia in un mondo di fantasia, popolato di angeli, santi, dèi pronti a soccorrere e paradisi a buon mercato.
La via del Buddha è un’altra. C’è la sofferenza. La sofferenza è fisica, ma soprattutto mentale. È la nostra mente che ci fa soffrire. E allora si tratta di cercare la guarigione dalla nostra sofferenza occupandoci della mente. Si può dire che siamo nel campo della psicoterapia, qualche millennio prima di Freud.
Dhammacakkapavattanasutta, Samyutta Nikaya, 56.11, in La rivelazione del Buddha. I: I testi antichi, a cura di R. Gnoli, Mondadori, Milano 2001 (d’ora in poi RB1), pp. 5 segg. ↩