Svaha!

Tarkus

Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.

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Un uomo è stato colpito da una freccia. Possiamo immaginarcelo in una foresta, preso in un’imboscata. A un certo punto ha sentito qualcosa muoversi dietro gli alberi, poi il sibilo della freccia: e in un attimo si è trovato a terra. Il nostro uomo ha due compagni con lui, forse sono gli unici sopravvissuti ad una battaglia: perché ce li figuriamo come soldati. E può essere che sia per questo che l’uomo, pur essendo ferito, chiede ai compagni: chi mi ha colpito? come si chiamava? che aspetto aveva? I compagni non possono saperlo, se non abbandonandolo e mettendosi ad inseguire l’assalitore.

La storia dell’uomo ferito dalla freccia è una delle storie più efficaci raccontate dal Buddhaè1: poiché il Buddha era un filosofo raffinatissimo, ma sapeva anche raccontare storie per quelli che hanno bisogno di storie. La faccenda dell’uomo e della freccia va al centro del buddhismo.

Avrai capito che l’uomo ferito è ognuno di noi e che la ferita non è altro che il dolore che proviamo. Ora, quando hai una freccia nel corpo, la cosa più saggia è toglierla subito; chiedere chi è stato a scagliarla è sciocco, inutile e pericoloso. Mentre si indaga, la ferita si allarga, incancrenisce, e il corpo si dissangua. È per questo che il Buddha restava in silenzio quando gli facevano domande su cose troppo grandi. Esiste l’anima? Esiste Dio? C’è un creatore del mondo? È come chiedere chi ha scagliato la freccia. Mentre la freccia va estratta, e la ferita curata.

Il nostro uomo ferito assomiglia molto a Giobbe, l’innocente perseguitato da Dio di cui abbiamo già parlato. Ridotto alla miseria, solo, malato, Giobbe accusa Dio. Perché gli ha fatto questo, se lui è stato sempre giusto? Perché Dio perseguita i giusti e lascia in pace i malvagi? Perché, anzi, i malvagi prosperano? Gli amici cercano di convincerlo che no, Dio è buono, Dio è giusto, e dev’esserci una spiegazione per la sua situazione. Ora, immaginiamo tra gli amici anche il Buddha. Gli direbbe, più o meno: caro Giobbe, lascia perdere Dio. Forse esiste, forse non esiste, forse è buono e giusto, forse no. In ogni caso, questo non ha a che fare con te. Tu ora stai soffrendo. Le domande che devi farti sono: perché sto soffrendo? come posso smettere di soffrire? come posso ritrovare la pace ora che non ho più nulla?

Per rispondere a queste domande bisogna capire perché soffriamo. Il povero Giobbe ha perso tutto. Soffre per questa perdita. Soffre perché vorrebbe avere qualcosa che non ha. Soffre perché desidera. Individuare il desiderio − tanha, nella terminologia buddhista − è un primo passo importante verso la comprensione della sofferenza. Desideriamo tante cose: avere qualcosa che non abbiamo, riavere qualcosa che non abbiamo più, essere qualcosa che non siamo, essere di nuovo qualcuno che non siamo più; e avere: cose, persone, successo. Il desiderio ci brucia proprio come la sete quando non beviamo da molto, troppo tempo.

Soffriamo perché siamo esseri desideranti. Ma dobbiamo andare oltre: perché desideriamo? Da dove nasce il desiderio? La risposta del Buddha è che il desiderio è una caratteristica dell’io. Soffriamo perché desideriamo, e desideriamo perché siamo un io. Soffriamo perché diciamo: io. E più diciamo io, più soffriamo.

The weaver in the web that he made, dice un verso di una canzone degli Emerson, Lake & Palmer. Il tessitore nella rete che ha fatto lui stesso. Mi viene spesso in mente, questo verso, quando penso all’io. È in effetti come un ragno che tesse di continuo la sua tela. Una tela nella quale vorrebbe che restasse imprigionato tutto ciò che desidera. E ogni volta che qualcosa o qualcuno resta imprigionato nella sua tela, lui lo mangia. E ogni volta che lo mangia diventa più grande. E tesse una tela ancora più grande, ma che non è mai abbastanza grande per soddisfare il suo desiderio. Puoi figurarti questa tela come una architettura grandiosa, che cresce tutto intorno a questo ragno ormai gigantesco, che però a un certo punto collassa su sé stessa, cade addosso al ragno, lo avvolge e soffoca.

La canzone degli Emerson, Lake & Palmer si chiama The Only Way e fa parte di Tarkus, un album del 1971 che ha una meravigliosa copertina raffigurante un gigantesco armadillo con la parte inferiore costituita da un carro armato. Anche questa immagine mi viene in mente quando penso all’ego. Gli Emerson, Lake & Palmer volevano raffigurare il lato oscuro dell’umanità, la sua tendenza alla guerra, all’odio, alla distruzione. Dal punto di vista buddhista quel mostro cingolato è un mostro che dice io; un mostro che non può tollerare realmente un tu: deve sfruttarlo, sottometterlo, disciplinarlo, costringerlo ad amarlo, ucciderlo.

Soffriamo perché desideriamo, desideriamo perché diciamo io. Ma come smettere di dire io?

  1. Il paragone della freccia si trova nel Culamalunkyasutta, Majjhima Nikaya, 63; traduzione italiana in RB1, pp. 225-226.