Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.
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Questa notte ho sognato di essere felice. Ero nell’atrio di quella che sembrava una grande villa in stile liberty. A sinistra una maestosa porta in ferro battuto si apriva su un meraviglioso giardino. E io attraversando quell’atrio ero felice. Provavo una gioia assoluta. E provandola mi chiedevo: qualche altro essere umano ha già provato questa gioia? qualcuno forse ha già tentato di comunicare un’esperienza simile?
Ero immerso in quella gioia e in questi pensieri quando mi sono svegliato. Sono rimasto un po’ a letto a riflettere. In genere, appena sveglio, c’è un momento – proprio un attimo – in cui non sono niente. Semplicemente esisto. Poi, all’improvviso, l’identità mi cade addosso: divento io, ho i miei anni, sono nella mia stanza; e un attimo dopo ancora acquisto consapevolezza di quello che mi preoccupa.
Riflettendo su quella gioia mi sono chiesto se essa non abbia a che fare con questo essere semplicemente. Poiché non si trattava della gioia per una cosa determinata. La gioia, ad esempio, che si può provare alla nascita di un figlio, oppure la prima volta che si bacia una persona che si ama. Era una gioia per nulla, poiché per quello che riesco a ricordare del sogno – ma di fatto mi resta solo quella scena dell’atrio – non era accaduto nulla di particolare.
Mentre scrivo la primavera sta lottando con gli ultimi colpi dell’inverno. Giorni caldi si alternano a giorni freddi, e spesso nell’ambito della stessa giornata il mattino è freddo, il pomeriggio caldo, la sera freddissima. Qui intorno la campagna è esplosa nella solita meraviglia di colori. È un piacere passeggiare tra i colli, seguendo una strada costeggiata da cespugli di biancospino e acacie in fiore. Ma questo piacere non è la gioia che ho sognato. Mi immagino, piuttosto, di essere seduto su un prato – ce n’è uno meraviglioso a pochi passi da casa – e di chiudere gli occhi. Il verde dell’erba, l’azzurro del cielo scompaiono. Scompare la poiana che lenta sorvola il vecchio podere, scompare il volo allegro dei balestrucci. Nessuna immagine, nessun rumore. Ed ora, ecco, scompare anche il mondo di dentro. Niente lavoro, niente problemi di alcun tipo. Nessun pensiero per lo ieri o per il domani. Nulla da fare. Nulla da pensare. Solo essere. Non il mio essere. Non l’essere della poiana o del balestruccio. Non l’essere del cielo o dell’erba. Solo l’essere in sé. L’essere che sfugge ad ogni determinazione, che non è né questo né quello, lontano e inafferrabile, eppure sempre qui, più vicino a me di me stesso.
Mentre sono a letto a pensare a queste cose mi vengono in mente tre parole sanscrite. Sat. Cit. Ananda. Essere, coscienza, gioia. Sono le tre parole che per gli antichi indiani indicano il Brahman, la realtà ultima, il Dio che è anche oltre Dio.
L’essere, l’essere ultimo, è gioia. Ma questa è ancora teoria, è ancora linguaggio. E il linguaggio dice le cose, non quello che è al di là delle cose.