Svaha!

Le cose né sono né non sono

Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.

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Ti ho parlato di Pirrone, lo scettico. Mentre gli altri filosofi creano dottrine, sistemi, teorie più o meno grandiose, più o meno ambiziose, lo scettico se ne sta in disparte e scuote il capo. Nessuna di quelle costruzioni lo persuade. Nega la possibilità stessa di costruire qualcosa. E si interroga su come vivere in una terra nuda, sotto il sole e la pioggia.

Il crollo progressivo e inarrestabile di tutte le fedi – religiose, politiche, morali – ha reso attuale lo scetticismo ed ha fatto di questo strano personaggio, che viveva con la sorella ostetrica e praticava una singolare imperturbabilità, un precursore di cui essere in fondo orgogliosi. Quanto ha influito il viaggio in India sul suo scetticismo? Abbiamo visto che al tempo del Buddha in India era già presente una scuola scettica, quella di Sanjaya Belatthiputta. Nei testi buddhisti i suoi seguaci sono chiamati sprezzantemente anguille: in una discussione negano qualsiasi affermazione, confutano una tesi senza affermare la tesi contraria, ma mettendo in crisi la stessa pretesa di formulare una teoria sul mondo. Il Buddha, stando ai testi, si contrappose vivacemente alla sua scuola, come alle altre; non manca tuttavia qualche studioso che sostiene che Pirrone sia entrato in contatto non con i continuatori di Sanjaya, ma proprio con dei monaci buddhisti.

Secondo le testimonianze, Pirrone affermava che non è possibile alcuna verità perché le cose non lo consentono. Dire la verità significa dire le cose come sono. Questo è possibile se le cose sono in un certo modo; se cioè sono sostanziali. Ma le cose per Pirrone non sono così; ogni cosa “è non più di quanto non è”, “è e non è”, “né è né non è”. 1 In termini buddhisti, Pirrone sta dicendo che le cose sono insostanziali. Impermanenti, ma anche prive di identità. E come è possibile la verità, in un mondo di cose prive di identità? Come è possibile, se noi stessi – i soggetti portatori di verità – siamo insostanziali? Come abbiamo visto, il discorso del Buddha non vuole essere un discorso vero. Vuole essere un discorso utile, nulla più di una zattera per giungere dall’altra parte.

(In)definire le cose sostenendo che esse né sono, né non sono, né sono né non sono è tipico del buddhismo. Si trova, ad esempio, nel Lankavatara sutra. In questo sutra il Buddha compare su un monte dello Sri Lanka è dà un insegnamento sul carattere illusorio della realtà e della nostra stessa mente. Tutte le cose, vi si legge, sono illusioni: “alla luce della tua [del Buddha] saggezza e compassione esse né sono né non sono”.2 Portato in Cina, questo testo è stato fondamentale per lo sviluppo del buddhismo chan e poi dello zen. È, come i testi della prajñaparamita, un libro vertiginoso, che ci conduce direttamente al centro dell’insegnamento buddhista. Ci sono, afferma, tre modi di considerare la realtà. Quello ordinario consiste nel credere che esista un mondo fatto di cose. È la realtà immaginata. Uno sguardo più profondo scopre che invece le cose, che appaiono sostanziali, non lo sono, ma dipendono da altro, sono insostanziali e impermanenti. È la realtà dipendente. Procedendo oltre, si scopre che le cose semplicemente sono illusorie, il sistema dei nomi e delle cose è falso, nulla davvero esiste né non esiste. È la realtà perfezionata, la realtà della vacuità.3

“Né sono né non sono” è una espressione singolare. Il nostro linguaggio è stato creato per dire l’essere o l’assenza di essere. Come dire questa dimensione che è oltre il varco tra essere e non essere? E come dire l’evanescenza del nostro mondo quotidiano? Il sutra fa ricorso continuo a formule paradossali. Possiamo parlare, dice, del figlio di una donna sterile. Ma esiste davvero? Le nostre parole possono essere vuote, non dire nulla anche se sembra il contrario. Ma in fondo le nostre parole sono sempre vuote, nella misura in cui pretendono di narrare come pieno un mondo che invece è vuoto. La verità non può essere detta dalle parole. Dal momento dell’illuminazione, dice il Buddha, “non dico, non ho detto e non dirò una sola parola, perché non parlare è il modo di parlare dei buddha”.4

Non parlare in greco si dice afasia. Ed è uno degli insegnamenti centrali di Pirrone.

  1. Aristocle, fr. 6 Heiland. 

  2. Lankavatara Sutra, traduzione e commento di Red Pine, cit., sezione I, p. 35. 

  3. Ivi, sezione XXIII, pp. 75 segg. 

  4. Ivi, sezione LXI, p. 133.