Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.
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L’università buddhista di Nalanda è stata uno dei più imponenti centri culturali della storia dell’umanità. Una vera cittadella-monastero capace di ospitare migliaia di studenti, molti dei quali venivano da paesi lontani, attratti dalla fama dell’istituzione, più di mille insegnanti, e soprattutto una straordinaria biblioteca, che raccoglieva tutto il sapere buddhista, ma anche testi scientifici. La perdita di importanza del buddhismo in India, contrastato dalla rinascita dello hinduismo, le tolse gradualmente importanza, ma fu l’invasione islamica a segnarne la fine. Fu distrutta con terribile brutalità dal generale islamico Muhammad Bakhtiyar Khalji, alla fine del XII secolo. Secondo le fonti buddhiste l’università e la biblioteca furono date alle fiamme e monaci e insegnanti massacrati in massa; il rogo causò una nuvola scura che oscurò il cielo per giorni. Secondo le fonti buddhiste l’università e la biblioteca furono date alle fiamme e monaci e insegnanti massacrati in massa; il rogo causò una nuvola scura che oscurò il cielo per giorni.
A Nalanda è legata la vita di Nagarjuna. Nato da una famiglia hindu, si convertì al buddhismo e raggiunse Nalanda per studiarlo a fondo; della università diventerà, secondo la tradizione, il pandit, una via di mezzo tra rettore e abate. Ma una figura così importante – lo si onora addirittura del titolo di secondo Buddha – non poteva sfuggire alla leggenda: mago, alchimista, versato in ogni sapere, si racconta che scese al fondo dell’oceano, dove il re dei serpenti divini (i naga) gli mostrò alcuni testi segreti, che gli consentirono di acquisire la perfetta conoscenza. Dietro la leggenda è netto il profilo di un filosofo straordinario, capace di analisi raffinatissime, il cui pensiero può dialogare sia con alcune delle voci più importanti della filosofia contemporanea (ad esempio Ludwig Wittgenstein) che con la fisica quantistica.
La sua opera principale sono Le stanze del cammino di mezzo (Madhyamakakarika); e cammino di mezzo (madhyamaka) si chiamerà la sua scuola. La sua potrebbe essere definita una riduzione – rigorosamente logica – al vuoto. Noi viviamo in un mondo fatto di cose. Ad ogni cosa corrisponde una parola, ad ogni parola un concetto. E con le parole e i concetti costruiamo le nostre teorie del mondo. Guardiamo il paesaggio – ormai è estate, qui, e la valle è sorvolata dal volo dei balestrucci – e diciamo, ad esempio, che la natura è espressione dell’opera di Dio. O al contrario, che non è che materia, atomi e vuoto. Due teorie contrapposte, che oggi possono convivere più o meno pacificamente, mentre in passato sostenere la seconda avrebbero causato persecuzioni, torture, roghi. Tutte queste cose – i nomi, i concetti e quindi le teorie – procedono dalla nostra mente; ma la nostra mente, insegna il buddhismo, è illusoria. Non esiste alcun sé. Chi dice “la valle risuona del canto degli uccelli” è un soggetto illusorio. Come può essere vera l’affermazione? Chi sostiene che Dio ha creato il mondo, oppure che il mondo è fatto di atomi, è un soggetto illusorio. Come possono essere vere le due teorie? Se l’io è illusorio, allora tutto ciò che l’io vede, nomina, pensa, teorizza, è illusorio. In ogni affermazione abbiamo l’incontro di due irrealtà: l’irrealtà di chi parla e l’irrealtà di ciò che dice. L’irrealtà dello specchio e quella di ciò che lo specchio riflette.
Attenzione, però: anche le cose che ho appena scritto sono parole, e dunque anch’esse sono illusorie, rappresentano una teoria che, come tutte le teorie, non dice il vero. È per questo che Nagarjuna, che è il massimo filosofo buddhista, fa a pezzi il buddhismo. Letteralmente: ogni singola affermazione in cui consiste il Dharma viene analizzata con logica implacabile e ricondotta all’assurdo. Quale è lo scopo di questa impresa paradossale? Andare oltre. In ogni teoria del mondo, compresa quella buddhista, ci sono due cose che si sostengono a vicenda: da una parte un soggetto, dall’altra un sistema ordinato di cose e di parole (il mondo, appunto). Nagarjuna vuole andare al tempo stesso al di là del soggetto, della mente che pensa e nomina, e al di là dell’oggetto, del mondo. Al di là del mondo pensato e nominato dalla mente c’è la vacuità. Ma pensare la vacuità vuol dire, ancora una volta, pensare e nominare: fare teorie. La vacuità non va pensata: nella vacuità si è. E si è nella vacuità quando si è trascesa la mente. Questo essere oltre il mondo e sé stessi è null’altro che il nirvana. Che non consiste nel raggiungere un mondo diverso da quello in cui siamo, ma nel vedere diversamente la nostra stessa realtà. Il samsara, la condizione di sofferenza in cui ci troviamo, e nella quale rinasciamo ciclicamente, non è diverso dal nirvana. Il prigioniero in realtà è già libero, perché la prigione non è che una proiezione della sua mente.
Nagarjuna è consapevole del pericolo insito nella sua posizione. Inteso come dottrina, il vuoto conduce ad un nichilismo che è pericoloso anche sul piano morale. Perché non dovrei uccidere un essere umano, se ogni cosa è vuota, insussistente, priva di natura propria? Esistono due piani di realtà, spiega:
L’insegnamento del Dharma da parte dei vari Buddha è basato su due verità; la verità relativa (mondana) e la verità assoluta (suprema). Coloro che non conoscono la distinzione tra le due verità non possono comprendere la natura dell’insegnamento dei Buddha. 1
E aggiunge:
Senza fare affidamento sulle comuni pratiche quotidiane (cioè le verità relative) la verità assoluta non può essere espressa. Senza approcciare la verità assoluta, il nirvana non può essere ottenuto.2
Ricorderai le dieci icone del bufalo. Ecco: il mercato dell’ultima icona sono le “pratiche quotidiane”. Quel mondo illusorio nel quale siamo chiamati a lavorare, progettare, amare, generare, conquistare e perdere. La vacuità getta su questo mondo quotidiano uno sguardo nuovo. Mi pare che da questo momento nasca una sensibilità diversa. Più che il disgusto (nibbida) con il quale i sutra antichi invitano a considerare la nostra esperienza e noi stessi, c’è qui una suprema leggerezza, il respiro ampio di chi ha scoperto che è qui la luce dell’altrove.