Svaha!

L’assenza

Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.

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Nel marzo del 2001 i fanatici talebani hanno cancellato con la dinamite due grandiose statue del Buddha, scolpite nella roccia dei monti dell’Afghanistan. Ogni tentativo di salvarle da parte della comunità internazionale è stato inutile. Il mondo ha assistito impotente a un crimine contro la storia e la cultura. Ma quel crimine ha restituito al buddhismo più di quel che gli ha tolto.

Quando avevo vent’anni ed ero un cantiere nel quale bisognava lavorare duramente (e non è forse così anche oggi?) mi capitò di imbattermi in un monaco tibetano impegnato nella realizzazione di un mandala. La sua concentrazione era assoluta, ed aveva del prodigioso la precisione con cui ogni granello di sabbia colorata andava ad occupare il suo posto per comporre l’insieme. Sapevo che, appena compiuta, quell’opera sarebbe stata distrutta. E in questo gesto c’era qualcosa di radicalmente altro da tutto ciò che conoscevo. Ero in una città di mare, e nulla era più adatto, per riflettere su quell’esperienza, dello sguardo fisso sull’incessante andare e venire delle onde.

Nei secoli i buddhisti hanno realizzato opere d’arte meravigliose, dalle statue del Gandhara, sulle quali è evidente l’influsso dell’arte greca classica, all’esplosione di immagini e di colori dell’arte tibetana e, per contrasto, all’essenzialità dell’arte zen. Eppure mi sembra che in ognuna di queste opere vi sia una possibilità e un pericolo. La loro bellezza è l’espressione di una mente liberata dalle impurità della rabbia, della confusione, dell’attaccamento, in grado di vivere nell’armonia e nella pace. Ma la bellezza colpisce i sensi e crea attaccamento. Se la bellezza poi è quella di un’immagine del Buddha (o di un bodhisattva), si crea quel particolare attaccamento che si ha verso le immagini sacre. Un’immagine sacra è oggetto di una devozione che si spinge fino al fanatismo; la sua distruzione è un sacrilegio, un atto che esige vendetta e riparazione. Non c’è nulla, in ciò, della libertà del Dharma.

Chi ha scolpito quelle enormi statue doveva essere mosso da una fede molto forte. Scolpire nella pietra è una sfida aperta all’affermazione che tutto è impermanente. E la distruzione delle statue dimostra che no, ha proprio ragione il Buddha: tutto è impermanente, anche ciò che si scolpisce nella roccia, e ogni attaccamento è insensato. Ma non solo. Quella sottrazione rappresenta anche una perfetta icona del Dharma e della sua differenza. Non c’è un Dio a rassicurare, a blandire la nostra miseria, a puntellare i nostri egoismi. O ad amplificare la nostra ferocia. Nella sua essenza, il Dharma è iconoclasta. Fino a quando c’è una immagine da venerare, c’è alienazione. Venerare il Risvegliato vuol dire essere lontani dal risveglio. Nessuno ha espresso questo aspetto meglio del grande maestro cinese Lin-Chi (Rinzai in giapponese). “‘Buddha’ e ‘patriarca’ sono soltanto nomi di glorificazione fonte di schiavitù”, afferma.1 E: “Qualsiasi cosa incontriate, sia all’interno o all’esterno, uccidetela immediatamente: incontrando un Buddha uccidete il Buddha, incontrando un patriarca uccidete il patriarca, incontrando un arhat uccidete l’arhat, incontrando i vostri genitori uccidete i vostri genitori, incontrando un vostro parente uccidete il vostro parente, e raggiungete l’emancipazione”.2

Lo spazio vuoto, la ferita nella montagna, la sottrazione dell’immagine diventano così la cifra stessa del Dharma, la non-immagine che significa un percorso lungo che conduce esattamente qui ed ora, una via difficile che è al tempo stesso semplice come respirare.

  1. La raccolta di Lin-Chi, a cura di Ruth Fuller Sasaki, Ubaldini, Roma 1985, p. 47. 

  2. Ivi, p. 46.