Svaha!

La cura dei pensieri

Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.

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Gli anni passati dal Buddha alla ricerca di un metodo per la liberazione devono essere stati difficili. A ripensarci, la sua impresa è straordinaria. È un uomo che rigetta tutto, che non vuole saperne di testi sacri, di autorità, di pratiche consolidate, e ricomincia da zero, procedendo per tentativi ed errori. In un piccolo, delizioso sutra a carattere autobiografico, racconta ai suoi discepoli di aver provato, un giorno, a dividere i pensieri in due categorie. Ogni volta che sorgeva in lui un pensiero, lo analizzava e si chiedeva a cosa avrebbe portato. Era un pensiero buono? Gli avrebbe fatto bene? In questo caso lo avrebbe accettato, in caso contrario lo avrebbe abbandonato. I criteri per stabilire se un pensiero era sano, salutare, erano tre: l’attaccamento, la malevolenza e la violenza. Si tratta, dunque, del rapporto con gli oggetti e del rapporto con gli altri. “Allorché consideravo: ‘Questo pensiero conduce alla mia propria afflizione’, esso si pacificava in me. Quando consideravo: ‘Questo pensiero conduce all’afflizione di altri’, esso si pacificava in me. Quando pensavo: ‘Conduce all’afflizione mia e di altri’, esso si pacificava in me”.1

Questa è la seconda parte del sentiero, il retto pensiero (samma samkappa). La parola samkapp a è spesso tradotta anche con intenzione, ed in effetti implica un impegno: vigilando il mio pensiero, separo il bene dal male, la benevolenza dall’odio, l’amore dalla violenza; decido di impegnarmi, a partire da me stesso, per la fine della sofferenza. La differenza tra visione e pensiero può sembrare sottile. Considera che il fatto di avere una visione del mondo, di osservare le cose in modo oggettivo, senza illusioni né fantasie, di penetrare analiticamente la natura dei fenomeni non ci mette al riparo dal sorgere, qui ed ora, di pensieri oscuri o violenti. Del resto, la biografia di alcuni tra i più grandi filosofi è piena di piccinerie, meschinità, chiusure, invidie, opportunismi. Un uomo può avere un grande pensiero e al tempo stesso piccoli pensieri.

Questo vigilare sul pensiero è una forma di saggezza, ma è anche, già, una prima pratica meditativa, poiché meditazione è proprio questo: fare attenzione a sé stessi. D’altra parte anche le quattro nobili verità e gli altri punti fondamentali del Dharma, in cui consiste la retta visione, possono essere oggetto di meditazione, come anche i grandi valori morali. Le parti del sentiero si incrociano, si richiamano a vicenda, confluiscono l’una nell’altra.

L’idea di fare attenzione ai propri pensieri, individuando in particolare quelli che causano sofferenza, è attualissima. Qualcosa di non troppo diverso da ciò che faceva il Buddha accade con la terapia cognitivo-comportamentale, che si è sviluppata a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso e che si concentra soprattutto sull’aspetto cognitivo, appunto: vale a dire sui pensieri. In una persona depressa sono ricorrenti, ossessivi pensieri negativi su sé stessi, sugli altri, sulla vita in generale, ed è proprio su questi pensieri che bisogna intervenire. Il terapeuta è colui che aiuta la persona a individuare i pensieri che sono causa di sofferenza e metterli da parte. Esattamente quello che faceva il Buddha, con una sola, significativa differenza: per il Buddha era importante che i pensieri non fossero fonte di sofferenza nemmeno per altri.

  1. Dvedhavitakkasutta, Majjhima Nikaya, 19, in RB1, p. 385.