Svaha!

Le viscere del Buddha

Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.

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Abbiamo lasciato il Buddha al Parco delle gazzelle. È il suo momento di maggior gloria: raggiunto il Risveglio, si presenta al mondo e mette in moto la ruota del Dharma, dando inizio alla nuova era della liberazione per tutti gli esseri. L’iconografia buddhista ama rappresentare il Buddha circondato da una luce che ne indica l’eccellenza spirituale. È uno degli orpelli con i quali la tradizione ha ritenuto necessario ornare la dignità dell’uomo e farne una figura quasi divina, ma c’è motivo di credere che quel giorno il Buddha, nel pieno della sua govinezza e con la quieta pienezza che gli veniva dalla visione del mondo appena conquistata, avesse realmente un suo certo splendore.

Facciamo ora un passo in avanti di cinquant’anni. Il Buddha ha ottant’anni. La sua dottrina ha avuto successo, la sua figura è nota e venerata, la sua comunità, il Sangha, è numerosa e potente. Eppure il Budha sembra non solo stanco, ma anche amareggiato. Probabilmente sognava di creare una comunità di persone nobili, al di sopra delle macchie umane, purificate dalla sua dottrina, mentre si è ritrovato circondato e seguito da una comunità umana, troppo umana, nella quale non mancano le risse, gli odi, le meschinità. Sa che ha poco da vivere ed è preoccupato per quello che accadrà dopo la sua morte a quella comunità, che ama nonostante la meschinità. La comunità è il veicolo della dottrina, cui affida le sue sorti dopo la morte.

Un giorno seguito dai suoi monaci accetta l’ospitalità di un ricco orefice, Cunda, che mette a loro disposizione un suo boschetto. Il brav’uomo, onorato dalla visita del Buddha, lo invita a pranzo e prepara per lui un piatto chiamato sukaramaddava, termine che con ogni probabilità indicava della carne tenera di maiale (ma non si può escludere che si trattasse di funghi). Dopo aver mangiato il Buddha chiede a Cunda di buttare il resto del cibo, senza mostrargli il suo turbamento; lo incoraggia, anzi, con un discorso sulla dottrina. Ma è provato. Sulla via del ritorno le gambe non gli reggono: chiede al fedele Ananda, che lo accompagna, di preparargli un cuscino con una tunica ripiegata e di portargli dell’acqua. Ha sete e dolore alla pancia. Un dolore terribile: gli ultimi giorni della sua vita li passa “in preda a una diarrea sanguinolenta”{5}.

L’immagine di questo vecchio che caca sangue sembra dissacrante. Manca, certo, nell’iconografia buddhista. Abbiamo il Buddha sotto l’albero del Risveglio, il Buddha che insegna, il Buddha piegato su un fianco, perfino il Buddha pelle ed ossa del suo periodo ascetico. Non questi Buddha fragile e malato. Ma non è forse anche questa una icona degna? Non ha insegnato, il Buddha, che la vita ha molte sofferenze, che il corpo invecchia, che nulla ci salva dalla miseria della malattia? E la sua dottrina non consiste forse nel cercare di restare umani quando la vita ci disumanizza?

Qualche giorno prima di mangiare da Cunda aveva detto ad Ananda: “Siate un’isola per voi stessi, prendete rifugio in voi stessi!”{6}. Me lo figuro, questo vecchio stanco e sofferente, alle prese con l’offesa del suo corpo, intento a cercare dentro di sé un posto non toccato dal dolore, impegnato in una fuga in sé e da sé, a nascondersi da sé stesso rendendo superficie tutto il male del mondo, tutta la miseria che il tempo ci rovescia addosso.

Il suo ultimo discorso esprime il suo amore e la sua fiducia nei suoi discepoli. In tutta la grande assemblea di monaci, dice ad Ananda, non ce n’è uno che abbia dubbi sul Buddha o sulla pratica e che non sia destinato al Risveglio. E chiude la sua vita con due parole: Apammadena sampadethati, che potremmo tradurre con “esercitatevi con cura” oppure con “lottate instancabilmente”{7}: il testo pali comprende entrambe le sfumature.

Una settimana dopo la morte del Buddha alcuni monaci, guidati da Mahakassapa, incontrano un seguace della scuola degli ajivika. Ha con sé un fiore dell’albero del corallo. Racconta di averlo raccolto dove è morto il Buddha. Al racconto, i monaci più fragili scoppiano a piangere, mentre quelli più saldi nella dottrina ripetono a sé stessi e agli altri che tutto è impermanente e destinato a morire. Si distingue dagli altri un certo Subhadda, che si rivolge ai monaci dicendo loro: “Non lamentatevi, amici, ci siamo finalmente liberati del fastidioso grande asceta che diceva ‘non va bene fare questo, non va bene fare quello’; ora possiamo fare quello che vogliamo”.{8}