Svaha!

Lo scassinatore

Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.

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Quando ero piccolo, le bambine giocavano alla campana. Tracciavano con il gesso dei segni a terra e poi saltavano, ora a gambe divaricate, ora a gambe unite. Non ho mai capito il segreto di quel gioco, mi limitavo ad apprezzarne il lato estetico, la simmetria di quei salti, l’allegria di quell’andare e venire tra linee geometriche. Ora quel gioco sembra essere scomparso, e per rintracciarne le regole dovrei interrogare la memoria di qualche mia coetanea. Impresa inutile, perché la conoscenza delle regole non illustrerebbe affatto il mistero di quella gioia infantile, così come la sezione di un cadavere non ha nulla da dirci del mistero della vita.

Un giorno il Buddha, seguito da cinquecento monaci, si trovava in un parco. Un certo asceta di nome Suppiya ed il suo discepolo Brahmadatta li seguivano, discutendo tra di loro: e dovevano essere buffi, ché Suppiya denigrava il Buddha, la sua comunità e la sua dottrina, mentre il discepolo li elogiava: e potevi vederli da lontano gesticolare e fermarsi ogni tanto per approfondire questo o quel punto – e poi il maestro ripartiva seccato ed il discepolo lo seguiva premuroso. Appena sorto il giorno, i cinquecento discepoli si riunirono e cominciarono a discutere di questi due singolari segugi. Il Buddha li sentì parlare, si informò sull’argomento di cui discutevano e quindi tenne un lungo, importante discorso – che sarà noto come Discorso della rete di Brahma – in cui gli uomini di pensiero, qualunque sia la loro opinione, appaiono tutti intrappolati nella rete della sofferenza, nella quale vengono risucchiati dopo aver per un solo attimo sollevato il capo. Libero dalla rete è solo il Tathagata, colui che è andato ed è tornato. Il Tathagata, spiega ai suoi discepoli, è uno che non gioca. “Qualcuno potrebbe dire: ‘Mentre alcuni venerabili asceti e brahmana che vivono col cibo offerto dai fedeli, indulgono nei seguenti gioci e ricreazioni: il gioco degli scacchi a otto, dieci colonne o giocato nell’etere, pariharapatha, santika, il gioco dei dadi, ghatika, salakahattha, il gioco della palla (akkha), pangacira, vankaka, il fare le capovolte (mokkhacika), la girandola (cingulika), pattalhaka, il piccolo carro, il piccolo arco, akkharika, manesika, yathavajja, l’asceta Gotama si astiene dal partecipare a tali giochi e ricreazioni’. È in questo modo, o monaci, che l’uomo comune si riferirebbe al Tathagata elogiandolo”{9}.

Il discorso era per marcare la differenza tra il Tathagata e il puthjjana, l’uomo della strada (in un altro tempo e in un altro luogo, un uomo chiederà ai suoi discepoli: “La gente chi dice che io sia?”); eppure v’è in esso qualcosa di sorprendente: la straordinaria conoscenza dei giochi da parte del Buddha, sia dei giochi infantili che di quelli d’azzardo, sia di quelli che si fanno con il corpo che di quelli che si fanno con degli strumenti. Prima di raggiungere la liberazione, il Buddha deve essere stato un grande giocatore, se anche adesso, di fronte ai suoi discepoli, li ricorda uno per uno. Possiamo immaginarlo chiuso nel palazzo a giocare a scacchi, o a palla, o a fare la giravolta. Finché accade l’evento che pone fine all’innocenza ed ai giochi: la de-lusione. Ma un giocatore resta tale fino alla morte. Ci si può liberare da un vizio, ma il gusto che ha portato a cedere a quel vizio ci accompagna. Ci si può liberare dal vizio del gioco, ma lo spirito del giocatore - di chi ha bisogno di un avversario, di pensare una strategia vincente, di azzardare una mossa dopo l’altra, di vincere o perdere – è irriformabile. I giochi che il Tathagata elenca con tanta precisione ai suoi discepoli sono stati sostituiti da un gioco molto più impegnativo, e perciò infinitamente più eccitante. Un gioco terribile, che rende terribile colui che ha vinto; poiché non c’è vittoria senza astuzia e senza audacia. In questo senso il Dhammapada1 afferma di colui che si è liberato:

Asaddho akatañño ca sandhichedo ca ya naro
Hatavakaso vantaso sa ve uttamaporiso.

Non ha fede, è ingrato,
è uno scassinatore, è un uomo che
ha distrutto ogni possibilità, ha rigettato la speranza:
egli è davvero un essere supremo.

  1. Dhammapada, 7.8, in RB1, p. 522.