Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.
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Nel film Il settimo sigillo di Ingmar Bergman il cavaliere Antonius Block, reduce dalle crociate, incontra la morte che lo attende in riva al mare.
“È già da molto che ti cammino affianco.”
“Me ne ero accorto.”
“Sei pronto?”
No, Block non è pronto, e del resto chi davvero lo è? E sfida la morte a scacchi. Non la rappresentano i quadri e le leggende come una giocatrice di scacchi? È vero, ammette la morte, come è vero che non ha mai perso una partita. “Forse anche la morte può commettere un errore”, replica il cavaliere. E comincia la partita.
Ho scritto che quello del Buddha è un gioco a scacchi con la vita. Ma è anche un gioco a scacchi con la morte. A voler credere alle scritture, pare che questa partita a scacchi il Buddha l’abbia vinta. Ma cosa vuol dire davvero sconfiggere la morte? Vuol dire non morire? Da questo punto di vista, è evidente che il Buddha non ha sconfitto la morte. È morto come tutti. È morto in età avanzata, con il corpo malandato, dopo aver sofferto non poco. La sua morte non ha nulla di glorioso, non è uscito di scena con un colpo di teatro, e non è nemmeno tornato in scena dopo la morte. Non si ha notizia di miracolose resurrezioni. I buddhisti discuteranno per secoli della condizione del Buddha dopo la morte. Esiste ancora da qualche parte? Si è definitivamente estinto? C’è o non c’è? I suoi discepoli tuttavia lo videro morire, e basta. Lo piansero un bel po’, poi andarono avanti, come succede. Se il Buddha non ha sconfitto la morte diventando immortale, in che senso ha vinto la sua partita a scacchi?
Dal punto di vista della dottrina buddhista, la sua vittoria consiste appunto nella sua estinzione completa. La vita e la morte sono opposti, ma sono degli opposti che si implicano a vicenda. Senza la vita, la morte non ci sarebbe. La pretesa di avere l’una senza l’altra è una pretesa assurda e irragionevole. E allora non è possibile liberarsi dalla morte senza liberarsi al tempo stesso dalla vita. Che nella visione buddhista significa liberarsi dalla rinascita. Il Buddha è colui che ha interrotto il ciclo della rinascita, colui che dopo essere morto, dopo essersi estinto, non rinascerà più.
So cosa stai pensando. È difficile per noi accettare che questa sia una vittoria. Noi occidentali non siamo abituati a pensare alla vita nell’ottica della rinascita, del ritornare continuo. E se qualcuno ce lo proponesse, con ogni probabilità vedremmo la cosa con gioia. Perché la vita è bella. Sì, sappiamo che ha in sé molti dolori, senza i quali non staremmo con ogni probabilità qui a leggere un libro sul buddhismo; ma nonostante i dolori (e forse anche grazie ai dolori) la vita resta bella, e vivere, continuare a vivere, è meglio che non vivere più.
Cosa ha vinto, dunque, il Buddha? È stata una vera vittoria, la sua?
Considerare l’azione definitiva, il non rinascere più, come una meta desiderabile è una cosa che ci resta incomprensibile. Io non credo nella rinascita (ne riparleremo), ma se qualcuno mi desse il potere di scegliere di estinguermi del tutto con la morte o di tornare su questa terra, penso che sceglierei di rinascere, per quanto consapevole delle sofferenze che questa vita comporta. Poniamo però che venga posta questa condizione: puoi rinascere, ma non nella forma che decidi tu; puoi rinascere in qualsiasi forma terrena; puoi rinascere topo, cane, vipera, maiale, mucca; o ancora, puoi rinascere schiavo nell’antica Roma o bambino soldato in Costa d’Avorio o soldato di Hitler nella Germania nazista. Puoi finire macellato in un mattatoio per cibare esseri umani o macellato in una guerra per saziare la sete di potere di chi comanda. Vorresti davvero rinascere? Probabilmente no. Poniamo però che ci sia qualche modo per influire sulla vita futura. Per gli indiani del tempo del Buddha questo modo c’è, è il karman. Rinasceremo in condizioni terribili se le nostre azioni saranno violente. Sconteremo nella prossima vita il male che abbiamo fatto in questa. Se le cose stanno così, allora basta essere giusti, non fare il male, evitare la violenza per rinascere e vivere una vita felice. Non è una cosa desiderabile? Perché il Buddha non si limita a predicare una vita buona per ottenere una buona rinascita? Perché parla di estinzione, di nirvana? E soprattutto, perché questo dovrebbe interessarci? Noi non crediamo nella rinascita, non siamo spaventati dalla possibilità di tornare sotto forma di maiale ed essere squartati. Perché dovremmo preoccuparci di come sottrarci a questo meccanismo perverso? Dovremmo riempirci la testa di superstizioni per poi cercare di liberarci dal terrore che ci suscitano? No. Se si trattasse di questo (e per molti buddhisti di fatto si tratta di questo) il buddhismo non avrebbe molta importanza per noi.
Ma non si tratta di questo.