Svaha!

Mendicanti

Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.

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Soffermiamoci su un particolare dell’ultimo racconto. Il Buddha, abbiamo visto, si sveglia e fa il suo giro mattutino per chiedere l’elemosina. Stando alle fonti la vita quotidiana del Buddha consisteva di queste tre cose: chiedere l’elemosina, meditare e dare insegnamenti. L’arte orientale è piena di raffigurazioni del Buddha impegnato negli altri due atti quotidiani – il Buddha che medita e il Buddha che insegna – ma non mancano anche, benché meno diffuse, immagini del Buddha con la sua ciotola per la questua.

Sappiamo che alcuni dei più grandi rappresentanti della nostra specie si sono procurati da vivere con questa attività; altri invece hanno ritenuto moralmente doveroso il lavoro. Tolstoj, ad esempio, benché molto ricco, decise di dedicarsi ai lavori più umili, e Gandhi, che da Tolstoj imparò moltissimo, riteneva che ognuno, indipendentemente dal suo lavoro e dalle sue inclinazioni, dovesse dedicare una certa quantità di tempo al lavoro manuale; per dare l’esempio si impegnò a filare all’arcolaio. Entrambi pensavano che fosse un modo per combattere l’ingiustizia sociale. Se c’è chi si occupa del lavoro intellettuale, senza alcuno sforzo muscolare, ci sarà anche chi, impegnato in un lavoro solo muscolare, si vedrà preclusa la via verso qualsiasi attività intellettuale e culturale. Era la via per rimescolare, per così dire, le classi sociali. D’altra parte sia Tolstoj che Gandhi avevano grande ammirazione per il Buddha. Nessuno dei due era buddhista. Tolstoj era un cristiano che in realtà non credeva nella divinità del Cristo, ma cercava di mettere in pratica il Vangelo; Gandhi era un hinduista, ma considerava (sbagliandosi, credo) il buddhismo nulla più che una corrente dell’hinduismo, e quindi venerava il Buddha al pari, o quasi, delle grandi figure della sua religione.

Perché il Buddha non lavorava? In realtà, se valutassimo la sua giornata con i canoni attuali, dovremmo dire che un lavoro il Buddha l’aveva. Si dedicava all’insegnamento, e l’insegnamento oggi è un lavoro retribuito. Oggi sarebbe un insegnante di filosofia, o qualcosa del genere. Bisogna aggiungere che il Buddha non aveva alcuna necessità reale di procurarsi da mangiare. Aveva molti estimatori, e molti di loro erano ricchi e potenti: con molto piacere lo avrebbero ricoperto di ogni bene e si sarebbero occupati a vita del suo sostentamento.

Perché allora usciva ogni mattina per il suo giro di questua?

Per noi è difficile capire il tipo di rapporto che si creava nell’India dell’epoca tra un asceta che chiedeva l’elemosina e chi gli donava qualcosa. Non manca però nella nostra cultura qualcosa di simile. Francesco d’Assisi praticava la questua, e così i suoi frati. Lo faceva perché, seguendo il Vangelo, considerava la povertà una virtù e la ricchezza un pericolo. La sua vita ha qualcosa in comune con quella del Buddha: anch’egli aveva conosciuto nell’infanzia e prima giovinezza la ricchezza, benché fosse figlio di un semplice mercante, e non di un re. Nell’esperienza di Francesco c’è anche qualcosa che manca al Buddha: la guerra. Il Buddha sa che esiste il male nelle forme della malattia, della vecchiaia e della morte. Francesco sa che c’è il male nella forma atroce della guerra, della morte inflitta all’altro essere umano, ridotto a nemico da sopprimere. Dopo la conversione Francesco compie l’atto fortemente simbolico di spogliarsi dei suoi vestiti e consegnarli a suo padre. Entra nudo e povero nella vita spirituale. Ed era esattamente quello che avveniva, e in parte ancora avviene, in India. Vivere di elemosina gli consente di mantenersi in questa condizione di povertà. A dire il vero, poveri – molto poveri – erano anche i lavoratori della terra, e se si fosse fatto loro compagno forse avrebbe messo ugualmente in pratica il Vangelo; forse lo avrebbe realizzato anche meglio. E d’altra parte sappiamo che vivendo di elemosine si può diventare anche molto ricchi, come è successo a non pochi frati del suo ordine, cosa che è improbabile maneggiando una zappa.

Fin dall’antichità, gli indiani hanno individuato quattro purushartha, gli scopi della vita umana. Il primo è il dharma, vivere praticando tutti i propri doveri, compresi quelli, che sono molti, legati alla propria casta, in modo da contribuire all’ordine dell’universo; il secondo è artha, la prosperità economica, il successo, il benessere; il terzo è kama, il piacere sensuale e sessuale, le emozioni, il godimento anche estetico; il quarto è moksha, la via della liberazione. Ognuna di queste vie, compresa quella del piacere, è legittima nel contesto indiano, ma ognuna ha sue specificità, ed è importante non confonderle. Il lavoro appartiene all’uomo che segue la via del dovere o quella del successo. Chi segue la liberazione deve mostrare anche esteriormente la sua alterità. Non ha famiglia, non ha legami; va a vivere nella foresta. È ai margini della società, ma al tempo stesso ne è in qualche modo il centro.

La parola mendicante deriva da menda, ossia difetto. Nella società occidentale chi, al di là dei motivi religiosi, chiedeva l’elemosina, lo faceva perché qualche difetto o malattia gli impediva di lavorare ed essere produttivo. Di qui, anche, il senso spregiativo del termine. Nel caso del Buddha e di Francesco, abbiamo qualcosa di diverso. Il mendicante non ha una menda, ma al contrario ha una perfezione che l’uomo comune non ha. Sta ai margini della società, ed anche questo fa parte della sua perfezione, della sua purezza, perché la sua posizione gli consente di considerare con distacco le faccende umane. E questo sguardo dal margine è considerato prezioso dalla società: per questo fare l’elemosina a un asceta è considerato un gesto particolarmente meritorio.

La società capitalistica non ha più bisogno di sguardi altri. È una società che ha tutto ciò che occorre per essere felici, o almeno così crede. Le vie della vita si sono ridotte: artha e kama. Successo e piacere. Non occorre alcuna liberazione. E il mendicante non ha alcuna verità, alcuno sguardo da consegnarci.