Svaha!

Pesi

Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.

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Non sono sicuro che Gesù volesse creare qualcosa come una chiesa. Nel Vangelo di Matteo si leggono parole contro gli scribi e i farisei che sembrano descrivere alla perfezione quello che sarà poi il clero cristiano: il rigorismo ipocrita, la vanità, gli abiti sgargianti, l’essere in prima fila per farsi vedere. E quando si legge “Nessuno chiamerete sulla terra vostro padre, poiché uno solo è il vostro Padre, quello celeste” (Matteo, 23, 9), non si può fare a meno di pensare che papa significa, appunto, padre.

Senza le chiese, tuttavia, con ogni probabilità il suo messaggio non sarebbe giunto fino a noi. Credo che Gesù non si ponesse il problema, poiché era convinto che i tempi stessero per finire e la liberazione fosse vicina. I suoi discepoli sono mandati città per città, casa per casa ad annunciare che “Il Regno di Dio è vicino” (Luca, 10, 11). Ma non dovranno girare troppo: “Non terminerete le città d’Israele prima che venga il Figlio dell’uomo” (Matteo, 10, 23). Ma le città d’Israele sono terminate, ed è nata la chiesa.

Il Buddha è seguito sempre da un gran numero di discepoli. Li ho chiamati monaci, traducendo il pali bhikkhu, che propriamente indica un mendicante; e mendicare era in effetti quello che facevano quando non erano impegnati ad ascoltare gli insegnamenti del Buddha. Senza di loro l’insegnamento del Buddha sarebbe scomparso, così come è scomparso l’insegnamento di tanti grandi maestri, di cui è giunto appena il nome o qualche vaga traccia dell’insegnamento. A dire il vero non basta una comunità. Occorre che la comunità abbia qualche potere. Per dire meglio: che sappia trovare il consenso di chi ha potere. Che riesca, anche, ad intercettare gli interessi di qualche classe sociale potente o in ascesa. Nella prima metà del secolo scorso in India B. R. Ambedkar cercò di convincere i paria, gli intoccabili indiani, a convertirsi al buddhismo per sottrarsi al devastante sistema delle caste, che li condannava e in gran parte li condanna ancora a una tragica esclusione sociale, ma in origine il Buddha cercò ascoltatori attenti soprattutto nella classe degli artigiani e commercianti.

La comunità, il Sangha, è lo scrigno che custodisce il tesoro del Dharma, la memoria del Buddha, il filo secolare dell’insegnamento. Ma è anche un pericolo. È un cerchio identitario, e come ogni cerchio dà un senso di sicurezza a chi è dentro, ma al costo di escludere chi è fuori. Il mondo si divide in buddhisti e non buddhisti, persone che sono nel Sangha e persone che non ne fanno parte. La comunità semplicemente umana finisce sullo sfondo: è così che la Birmania buddhista nega i diritti umani della minoranza musulmana Rohingya.

“La qualifica di cristiano mi pesa”, scriveva il cristiano cattolico Ernesto Balducci.1 L’essere cristiano, o buddhista, o musulmano, finisce per prevalere sull’essere umano.

I Tre Gioielli buddhisti rischiano di diventare tre pietre di nessun valore: il Buddha un essere da venerare, il Dharma una dottrina da difendere, il Sangha un recinto in cui chiudersi, lasciando fuori l’umanità.

  1. E. Balducci, L’uomo planetario, Edizioni Cultura della Pace, San Domenico di Fiesole (FI) 1994, p. 160.