Svaha!

Semi e frutti

Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.

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Ho compiuto un’azione con una certa intenzione. L’azione può sembrare brutta ma avere dietro una bella intenzione, o al contrario sembrare bella e avere dietro una brutta intenzione. Posso uccidere qualcuno per amore, come abbiamo visto, ma posso anche proteggere e aiutare qualcuno per riceverne un tornaconto personale. O addirittura per vendetta contro qualcuno. Posso anche, naturalmente, compiere un’azione bella animata da una bella intenzione o un’azione brutta accompagnata da una brutta intenzione.

Ti sembrerà strano, ma l’azione per il buddhismo non è solo quella compiuta con il corpo. C’è anche un’azione compiuta con le parole, che può essere buona o cattiva. E sarai d’accordo: con le parole possiamo fare bene o male, dare conforto o ferire; con le parole possiamo anche uccidere. Meno pacifico è che il buddhismo consideri azione anche quella mentale; c’è perfino un sutra in cui discutendo con un monaco jainista il Buddha afferma che l’azione mentale (manokamma) è l’azione più importante 1. La cosa appare meno bizzarra se consideriamo che azione mentale non è la semplice fantasia, ma quell’insieme di stati mentali (avarizia, brama, ignoranza, cattiva volontà) che costituiscono la vera radice delle azioni verbali o fisiche. Mi pare che sia per questo che il Buddha attribuisce loro un primato, anche se non è da escludere – i testi autorizzano anche questa interpretazione – che pensasse al potere magico del pensiero.

Ogni azione porta un frutto, che sia una parola, un’azione fisica o una cattiva disposizione mentale. Ma prima che si giunga al frutto occorre che ci sia il seme. Per il buddhismo, in effetti, ogni azione lascia una impronta chiamata appunto bija, seme, che resta latente fino a quando le condizioni non le consentono di germogliare e di portare frutto. Il problema è quello del terreno in cui cade questo seme. Affinché l’azione possa germogliare dopo la fine della nostra vita, in una nostra vita futura, occorre che vi sia un terreno comune. Il buddhismo però nega che esista questo terreno. Non solo non esiste un’anima come sostanza trascendente; non esiste nemmeno l’io, la mente come realtà unitaria. La nostra persona è in realtà un aggregato temporaneo di cinque elementi (khanda): la materia-corpo, le sensazioni (che comprendono i cinque sensi più la mente, considerata anch’essa un senso), le percezioni, le formazioni mentali e la coscienza. Detto così, appare una cosa abbastanza bizzarra – perché ad esempio distinguere la mente dalla coscienza? – ma si tratta in realtà di uno dei punti più alti della filosofia buddhista: una provocazione, per noi occidentali, perché mette in discussione non solo il dualismo corpo/anima, in cui ormai pochi credono ancora, ma lo stesso principio di identità, che è l’ultimo baluardo della visione del mondo tradizionale, sempre più assediato dalla filosofia e dalle neuroscienze.

Quando moriamo l’aggregato che siamo si disgrega. E la faccenda potrebbe finire lì. Terra alla terra, polvere alla polvere, lacrime alla pioggia. Ma la fine per il buddhismo è solo apparente: i pezzi tornano a riunirsi, per così dire, sotto l’impulso delle leggi karmike. Come avvenga nei dettagli non è facile comprenderlo, perché oggetto di discussione tra le diverse scuole. Una scuola antica, oggi estinta, quella pudgalavada, sosteneva che esiste una sorta di persona – il pudgala, appunto – che sopravvive anche dopo la morte. È la soluzione più semplice, ma va contro la negazione dell’esistenza di un’anima o sé, che è un punto centrale del buddhismo. Come avviene allora la rinascita? Come avviene che vi sia una nuova vita, che al tempo stesso è ancora la precedente e non lo è più? La questione è tra quelle che Milinda pone al saggio Nagasena. Che se la cava con due esempi. Immaginate, dice, che un uomo accenda una lampada usando un’altra lampada. O ancora: pensate a quando da bambino imparavate dal vostro maestro dei versi. Quei versi passavano dall’insegnante al discepolo? No, risponde Milinda. Eppure i versi sono passati, effettivamente, dal maestro al discepolo, pur senza alcun contatto fisico.2

La risposta di Nagasena è senz’altro intelligente, ma non è risolutiva: non a caso il buddhismo non ha mai smesso di interrogarsi su questa convinzione così difficile. Che pone di fronte a un bivio: se una teoria appare difficile da verificare, occorre crederla per fede (contraddicendo il principio di verificare da sé il Dharma) oppure bisogna sfinirsi in discussioni e analisi metafisiche (contraddicendo un altro principio, quello di evitare le discussioni non legate alla sofferenza e alla liberazione)?

  1. Upali Sutta, Majjhima Nikaya, 56. 

  2. Milindapañha, in RB1, p. 167.