Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.
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Permettimi di fare una divagazione, prima di cominciare l’esplorazione del sentiero del Dharma. Nel 1656, quando aveva superato da non molto i vent’anni, Spinoza subì la scomunica della comunità ebraica di Amsterdam. “Che sia maledetto di giorno e di notte, mentre dorme e quando veglia, quando entra e quando esce. Che l’Eterno non lo perdoni mai. Che l’Eterno accenda contro quest’uomo la sua collera e riversi su di lui tutti i mali menzionati nel libro della Legge; che il suo nome sia per sempre cancellato da questo mondo e che piaccia a Dio di separarlo da tutte le tribù di Israele affliggendolo con tutte le maledizioni contenute nella Legge”, diceva il testo della scomunica. Il suo nome, fortunatamente, non è stato cancellato: almeno per questa volta il fanatismo religioso non è riuscito a ricacciare nel silenzio il libero pensiero. E il filosofo, nonostante la scomunica, visse una vita serena, a quello che dicono i biografi. Mentre elaborava la sua filosofia, una delle più alte di ogni tempo, si guadagnava da vivere con un lavoro manuale, quello di intagliatore di lenti.
Andò peggio a quello che è considerato uno dei suoi maestri. Non gli fu maestro in senso stretto, perché quando morì Spinoza era ancora bambino, ma sicuramente sia il suo pensiero che la sua vicenda lo influenzarono molto. Si chiamava Uriel da Costa, era un ebreo di Porto, ed aveva subito anch’egli la scomunica per le sue idee. A differenza di Spinoza, però, cercò la riconciliazione con la comunità ebraica. La ottenne a un prezzo altissimo: dopo aver letto in sinagoga una pubblica dichiarazione di colpa, subì trentanove frustate, legato ad una colonna, mentre la comunità cantava un salmo; fu poi fatto sdraiare all’entrata della sinagoga, in modo che tutti coloro che uscivano gli passassero sopra, scavalcandolo.
Fu per lui una prova troppo dura. Nei giorni successivi scrisse la storia della sua vita, che intitolò Esempio di una vita umana (Exemplar humanae vitae), in cui raccontò l’umiliazione subita. Poi pose fine alla sua vita. Nelle ultime pagine della sua autobiografia c’è un passo che vorrei leggerti. Ecco: “Certo, se gli uomini volessero seguire la retta ragione e vivere secondo la natura umana, tutti si amerebbero a vicenda, tutti avrebbero compassione reciproca. Ciascuno, per quanto è nelle sue possibilità, allevierebbe le disgrazie altrui, o almeno nessun uomo offenderebbe un altro uomo senza motivo”.1 Ci sono tanti modi di pregare, e questo mi sembra quello più umano. Una invocazione che è al tempo stesso una protesta. Gran parte del male che subiamo, che soffriamo, viene dall’altro. Ma perché? Perché non possiamo semplicemente amarci? Perché ci roviniamo reciprocamente la breve vita che ci è concesso di vivere? Spinoza risponderà a queste domande nella sua Etica. Odiamo perché siamo schiavi delle passioni, e siamo schiavi delle passioni perché non le comprendiamo. Detto in termini buddhisti, all’inizio di tutto c’è l’ignoranza. E non c’è liberazione se non nella conoscenza. E tuttavia fino a quando gli ignoranti saranno la maggioranza, nulla potrà impedir loro di mettere a morte, o di umiliare pubblicamente, chi ignorante non è.
O. Proietti, Uriel da Costa e l’Exemplar humanae vitae. Testo latino, traduzione italiana, commento storico-filologico, Quodlibet, Macerata 2005, p.177. Si veda la prima parte del libro per la complessa questione dell’autenticità dell’opera. ↩