Svaha!

Vipere e cacciatori di avvoltoi

Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.

Indice Precedente Successivo

Le nostre parole possono essere farmaco o veleno. Se le usiamo come veleno, come arma, possiamo acquisire qualche forma di potere sugli altri; le parole, così usate, possono servire non poco al nostro successo personale o al successo di qualche noi in cui ci riconosciamo. Dietro la decisione di usare le parole come farmaco, e non come veleno – in questo, in definitiva, consiste la retta parola (samma vaca) buddhista – c’è una decisione: rinunciare al potere sull’altro. Essere insieme all’altro, non contro o sopra l’altro. E, quando occorre, essere per l’altro: aiutarlo, soccorrerlo, consolarlo, indirizzarlo. C’è questa decisione alla base dell’etica buddhista, come di qualsiasi etica autentica.

Ma in che modo le nostre parole possono diventare farmaco? Cos’è una parola-farmaco? Quando lessi per la prima volta il Vangelo – ero bambino o poco più – mi colpì molto, tra gli altri, quel passo in cui Gesù parla dell’ingiuria. “Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna” (Matteo, 5, 22). Mi colpì la sproporzione tra la colpa e la pena: perché a tutti capita, prima o poi, di dare dello stupido a qualcuno, e il fuoco della Geenna è una cosa terribile. Ma la cosa che più mi colpì fu che lo stesso Gesù sembra contraddire sé stesso. Quando ad esempio farisei e sadducei si presentano al suo battesimo, li chiama “razza di vipere” (Matteo, 3, 7). E direi che non è granché meglio che dare a qualcuno dello stupido.

Non va diversamente con il Buddha. Una volta richiamò severamente un tale monaco, che aveva interpretato con qualche libertà il suo insegnamento, sostenendo che non è vero che i piaceri sensuali costituiscono un ostacolo per la liberazione. Gli altri monaci lo avvertono che la sua opinione è errata, ma lui persiste. Allora riferiscono la cosa al Buddha, che lo manda a chiamare. E così gli si rivolge: “A chi, o sciocco, hai sentito che io abbia insegnato una simile dottrina?” 1 Ti confesso che non mi piace molto questo passo. Il Buddha non discute davvero l’opinione dell’uomo: si limita a dargli dello sciocco ed a rivendicare di non aver mai insegnato nulla del genere. E più volte il sutra ripete che l’uomo, che si chiamava Arittha, in precedenza era stato un cacciatore di avvoltoi, una occupazione che non doveva essere particolarmente nobile.

Perché Gesù insulta farisei e sadducei, perché il Buddha insulta Arittha? Ci sono, mi pare, tre possibili interpretazioni. La prima è che non si tratta di un insulto, ma di un modo un po’ rude ma efficace di dire la verità. Farisei e sadducei erano davvero una razza di vipere, e il povero Arittha era davvero sciocco. Capisci bene, però, che questa interpretazione ci autorizzerà a insultare liberamente chiunque, se saremo convinti che l’insulto colga la realtà dell’insultato. Con buona pace della retta parola. Una seconda interpretazione è che Gesù e il Buddha, quasi esseri realizzati, erano al di sopra del loro stesso insegnamento. La scarto subito, almeno per quanto riguarda il Buddha, la cui credibilità è interamente legata al suo metodo: non seguire intenzionalmente la via da lui stesso indicata avrebbe confuso i discepoli. Ritengo più credibile, se non si tratta di una aggiunta posteriore, una terza interpretazione: il Buddha ha semplicemente sbagliato. Perché era umano, e gli umani sbagliano. Le parole del Buddha in quel caso sono state farmaco? Difficile crederlo. E sono state farmaco le parole di Gesù Cristo a farisei e sadducei? No: erano parole cariche di rabbia. Di rabbia divina, giusta, forse. Ma pur sempre rabbia.

In questi due casi bisognerebbe, per usare ancora un detto di Gesù riferito ai farisei, fare quello che dicono e non quello che fanno (Matteo, 23, 3). Ma la parola dura, che ferisce, che è veleno, è pur sempre preferibile alla parola falsa, la parola che blandisce, che carezza, ma che non va all’essenza, non tocca la realtà, non denuncia l’errore. Retta parola è non ferire, ma anche dire la verità.

  1. Alagaddupamasutta, Majjhima Nikaya, 22, in RB1, p. 235.