Svaha!

Una storia

Antonio Vigilante, La luna nell’acqua. Una mappa per perdersi nel Dharma del Buddha, Tethis, Torino 2019.

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Il cristianesimo comincia con una storia: la storia di Gesù, detto il Cristo, il Figlio di Dio che è venuto sulla terra ed è morto sulla croce per la salvezza dell’umanità. Essere cristiani vuol dire credere in questa storia che va al di là della storia. Non è sufficiente credere nell’insegnamento di Gesù o mettere in pratica la sua morale. Occorre credere che Gesù è il Figlio di Dio e che è venuto per la nostra salvezza.

Anche il buddhismo comincia con una storia. È la storia di Siddhattha Gotama, l’uomo che diventò il Buddha, ossia il Risvegliato. Ma c’è una differenza: il buddhismo prescinde dalla storia del Buddha. Se qualcuno dimostrasse che il Buddha non è mai esistito, per il buddhismo non cambierebbe molto. Un buddhista non crede nel Buddha, un buddhista cerca di mettere in pratica il suo insegnamento. O meglio: cerca di diventare un Buddha.

E tuttavia non è male, per conoscere il buddhismo, partire dalla storia del Buddha. Si chiamava, ho detto, Siddhattha Gotama, e nacque a Lumbini, nel Nepal meridionale, 566 anni prima della nascita del Cristo. Era figlio del re Suddhodana, appartenente alla casta dei guerrieri, e di sua moglie Maya, che lo aveva concepito sognando di essere penetrata nel fianco da un elefante bianco. Siddhattha nacque all’improvviso, mentre Maya era in viaggio per raggiungere la casa dei genitori. La madre lo partorì appoggiandosi ad un albero, senza alcun dolore. Ma morì improvvisamente sette giorni dopo, affidando il bambino alla sorella Prajapati.

L’asceta Asita venne a sapere della sua nascita grazie ai suoi poteri spirituali, si presentò alla reggia di Suddhodana e piangendo per l’emozione profetizzò che il bambino appena nato avrebbe mostrato agli uomini la verità che salva. Il re ne rimase turbato. Non voleva un figlio santo, desiderava un erede che gli succedesse al trono. Per questo pensò di ostacolare l’inclinazione spirituale del figlio facendolo vivere nella sua reggia circondato da ogni tipo di piacere e di divertimento.

Così crebbe il giovane Siddhattha, viziato e distratto affinché non si accorgesse del male che c’è nel mondo. Ma un giorno sentì parlare dei boschi che erano fuori della città ed espresse il desiderio di vederli. Il re non glielo negò, dando però ordine di eliminare dalla città qualsiasi segno della malattia e della vecchiaia, affinché anche fuori dal palazzo il giovane Siddhattha vedesse solo persone giovani e belle. Gli dèi però sono di altro avviso e mettono sulla strada di Siddhattha un vecchio, un uomo malato ed un morto.

Turbato, Siddhattha chiede all’amico che lo accompagna e guida il suo carro. Cosa sono quelle persone? Cos’hanno? Perché quell’uomo è così grinzoso? Perché quell’altro ha il ventre enorme e si lamenta di continuo? Perché quell’altro ancora è immobile ed esanime? E l’amico gli rivela la terribile verità. Ogni essere umano invecchia, ogni essere umano si ammala, prima o poi: ed ogni essere umano muore. Ed è quello che accadrà anche a Siddhattha.

Il giovane principe torna al suo palazzo sconvolto. Ha scoperto l’aspetto terribile dell’esistenza. Nulla può essere più come prima. Nulla lo diverte più: le bellissime donne che lo seducevano ora gli sembrano disgustose. E una notte decide di andarsene.

Non è più giovanissimo, ha ventinove anni ed a palazzo lascia la moglie Yashodhara ed un figlio piccolo, Rahula. Si mette in cammino per cercare la verità. Diventa un asceta che vive nei boschi, come tanti al suo tempo. Trova dei maestri, diventa loro discepolo, ma non hanno la verità che cerca. Con loro raggiunge gradi di spiritualità elevatissimi, ma non ancora la via d’uscita dalla sofferenza. Decide di dedicarsi a privazioni rigorosissime, fino al punto che il suo corpo diventa pelle ed ossa. Finché un giorno si accorge che sta sbagliando tutto. Accetta una ciotola di riso che gli offre una ragazza. Si rimette in forze e decide di intraprendere una strada diversa. Riflette, medita, analizza la realtà. E una notte, seduto sotto un albero di fico, raggiunge il Risveglio, la Bodhi. E diventa il Buddha.

Ha trentacinque anni. Vivrà ancora altri quarantacinque anni circa. Anni durante i quali costituirà una vasta comunità di seguaci, il Sangha, metterà a punto la dottrina e troverà appoggi presso il potere politico.

Gran parte della storia che ho appena raccontato è mitica. Non mi riferisco solo alla faccenda della nascita miracolosa, ma anche all’essere figlio di un re. Nel luogo e nel tempo in cui è nato non c’era un regno, ma una repubblica oligarchica. Non tutto è falso, a dire il vero. In molti passi dei testi che raccontano la storia e l’insegnamento del Buddha – i sutra – emerge fortemente la sua umanità. La sua morte, ad esempio, non ha nulla di glorioso: morì dopo aver mangiato della carne guasta, dopo terribili emorragie e scariche di diarrea. Il sutra che racconta la sua morte si sofferma anche sulle sofferenze fisiche che provava: e pare di vederlo, questo vecchio malandato, con il corpo che gli infligge quei mali che secondo la leggenda avrebbe contemplato da giovane con animo turbato. Inventata è, con ogni probabilità, la storia dei piaceri vissuti nel palazzo reale, della scoperta del male e della fuga. Ma è una storia falsa che ha una sua verità. È la storia di ognuno di noi: è la storia di come usciamo dall’infanzia, il periodo della vita nel quale non conosciamo ancora il nostro destino di esseri fragili, destinati a morire; è la storia della scoperta della morte, che ci sottrae all’infanzia.

È una storia falsa, ma anche vera. È la storia di Siddhattha, comunque siano andate le cose nella sua infanzia e nella sua giovinezza. Ed è anche la storia di me che scrivo e di te che leggi.

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